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La seconda ondata della pandemia di coronavirus ha costretto il Ministero a chiudere prima cinema, teatri e sale da concerto, successivamente i luoghi della cultura, che sembravano esser stati risparmiati dal DPCM di fine ottobre. Nonostante tutto, l’arte non si ferma; nemmeno il nostro viaggio nel mondo della divulgazione digitale. Ne abbiamo parlato con un’art sharer molto particolare.
Art Nomade Milan
Con più di 33.000 follower su Instagram, genovese di nascita, milanese d’adozione, dal 2018 persegue con successo la sua mission, quella di avvicinare chi la segue, anche i profani, al mercato dell’arte in maniera chiara, facilmente comprensibile e professionale. Parliamo di Elisabetta Roncati, aka Art Nomade Milan, un’art sharer atipica: unendo la sua formazione economica e manageriale alla passione per la cultura, è andata oltre la sola divulgazione digitale occupandosi anche di organizzazione di mostre ed eventi, valutazione di opere d’arte, art writing, consulenza artistica e amministrativa.
Prima che entriate in crisi per la pronuncia, ve lo diciamo noi: è francese; il perché lasciamo che ve lo dica lei.
Ciao Elisabetta! Grazie per aver accettato il nostro invito.
Senza indugio: come nasce il progetto Art Nomade Milan?
Il progetto nasce, quasi per gioco, due anni fa. All’epoca lavoravo presso una realtà milanese che si occupava di cultura ed ero l’unica dipendente a non essere laureata in storia dell’arte. Ho una formazione orientata al management, alla comunicazione e all’economia. I miei colleghi dell’epoca erano rimasti sconcertati dal fatto che non conoscessi – lo ammetto – Hans Ulrich Olbrist. Così mi sono rimessa a studiare sia da auto didatta, sia frequentando corsi specifici presso la NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Si sono poi aggiunti il Master in Diritto e Fiscalità dell’Arte della Sole24Ore Business School, il corso per Curatore d’archivio d’artista presso AitArt, il corso in Islamic Art and Architecture e il perfezionamento in beni demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Riprendendo a studiare ho deciso di scrivere, di creare del materiale su questo bizzarro mondo che fosse tarato per i non addetti ai lavori. È nato così prima il blog, poi i relativi account social: Art Nomade Milan è ormai una vera e propria realtà, oltre ad essere un marchio registrato. Il suo appellativo omaggia Milano, città che mi ha dato e mi dà tantissimo, e la Francia, nazione molto importante per una parte della mia formazione lavorativa e della mia vita personale.
Sei su Facebook, Instagram, Pinterest, Twitter, Youtube, Linkedin e TikTok. Come mai questa scelta?
Di per sé l’uomo è un essere estremamente sociale e io, in special modo, amo davvero alla follia comunicare. È un bisogno talmente essenziale che a volte mi ritrovo a parlare da sola. Inoltre, credo che oggigiorno sia importante essere il più possibile visibili, ovviamente facendolo con metodo e strategia. Insomma potrei sintetizzare alcuni ragionamenti con il motto l’importante è che se ne parli. Agendo con professionalità e toccando temi culturalmente rilevanti va di per sé che i commenti di chi ti ascolta siano al novanta per cento positivi.
È il momento delle domande di rito.
Il mondo dell’arte e della cultura ha bisogno della figura dell’art sharer? Il suo ruolo può davvero spingere verso una nuova e prolifica forma di valorizzazione del patrimonio culturale italiano?
Partiamo dal presupposto che non amo né il termine art sharer né tantomeno quello di art influencer. Ad esempio, per la mia figura, preferisco parlare di “divulgatrice digitale” o KOL (Key Opinion Leader). Mi sembrano appellativi più calzanti visto le attività che svolgo, i temi che sviluppo e le testate per cui scrivo. Penso che definizioni quali sharer o influencer siano un po’ desuete e soprattutto nate in connessione ad una specifica piattaforma, ovvero Instagram. Invece, io intendo un “divulgatore digitale” come un libero professionista che è presente su tutti i social media, ha un marchio registrato, un proprio sito personale e sviluppa collaborazioni continuative con importanti e riconosciute realtà del settore, oltre ad offrire dei servizi. Detto ciò indubbiamente il patrimonio culturale italiano ha bisogno di approdare al mondo del digitale (quest’annus horribilis docet), il che non significa, in tempi normali, sostituire del tutto l’esperienza fisica. Determinate figure possono agevolare questa transizione e renderla vincente, catturando il grande pubblico.
Il modo di raccontare l’arte sta davvero cambiando? Potrà evolversi in qualcosa di diverso, o resterà legata agli stilemi che la incardinano all’immagine stereotipata del salotto elitario?
Per natura l’arte incarna un’idea di sacralità. Credo, però, che si debba narrare e far arrivare al grande pubblico e alle nuove generazioni anche la cultura, in maniera comprensibile e senza banalizzarla. Del resto, se si rimane chiusi nella propria turris eburnea, si rischia di diventare prigionieri della fortezza, autocondannandosi all’estinzione.
Il pubblico come risponde alla figura e al lavoro dell’art sharer?
Sinceramente ho sempre avuto un ottimo riscontro da parte del pubblico, in termini di interesse e di affetto. Sono spesso gli addetti ai lavori i più difficili da convincere. A volte alcuni di loro diffidano ancora del mezzo digitale. Va di per sé che anche la figura del divulgatore venga considerata come scarsamente professionale rispetto ai ruoli canonici del settore (critici, curatori, storici dell’arte).
A ottobre uno dei tuoi post su Instagram recitava Il digitale ha migliorato o peggiorato le visite ai musei? Noi abbiamo già detto la nostra; ma tu come risponderesti a questa domanda?
Può solo che migliorarla, a patto che le istituzioni adottino dei seri piani editoriali e che l’esperienza digitale non venga vista come sostituzione tout court della visita fisica. Il digitale deve essere di ausilio. Non si tratta di una lotta tra vecchie e nuove credenze, ma di riuscire a sfruttare al meglio ciò che i progressi tecnologici ci mettono a disposizione. Tutto sta nell’utilizzare le nuove “armi” che abbiamo a disposizione, per un unico obbiettivo comune: combattere l’ignoranza e creare un futuro migliore per chi verrà dopo di noi. Ciò è possibile solo investendo sul capitale umano, sull’educazione e sulla scolarizzazione. Sicuramente la pandemia globale ha imposto anche ai più restii l’utilizzo del digitale. Molte realtà culturali italiane non erano preparate a ciò e i contenuti pubblicati possono aver deluso il pubblico. Non bisogna però demordere. Il digitale ed un suo uso calibrato sono il futuro.
L’emergenza sanitaria ha incentivato – o costretto, dipende dai punti di vista – un po’ tutti a reinventare il proprio lavoro; molte aziende hanno sperimentato lo smart working, la didattica a distanza non è più un’esclusiva delle università telematiche. Ma una divulgatrice digitale come te, con la chiusura dei luoghi della cultura, come ha affrontato il lockdown?
Essendo una divulgatrice digitale, oltre che una consulente, l’ho affrontato con più vena creativa possibile e, devo confessare, ho avuto maggior tempo a disposizione da dedicare a progetti che erano rimasti latenti. Non vi nego che ho sofferto per la chiusura delle gallerie, dei musei, per l’assenza delle fiere, delle inaugurazioni e del networking. Sofferto sia dal punto di vista umano che professionale. Il lockdown era ed è difficile per tutti i professionisti culturali. Però ciò non mi ha impedito di essere prolifera e, nel mio piccolo, di continuare a sviluppare utili contenuti informativi. Così deve essere. A mio avviso se un divulgatore ha per forza bisogno di un set esterno per farsi ritrarre, abbinando outfit ed accessori all’opera di turno, c’è qualcosa che non quadra.
Già ad aprile c’era chi, a gran voce, chiedeva al Ministro Franceschini di riaprire i luoghi della cultura; i musei sono stati fra i primi a riappropriarsi della loro normalità, ma anche gli ultimi a resistere alle restrizioni dei DPCM autunnali.
Certamente non vogliamo elevarci a virologi, esperti agenti diplomatici o membri di AMS e OMS, ma penso sia lecito porci alcune domande. Secondo te, alla luce di quanto accaduto in questo anno funesto, è stato fatto abbastanza per tenere a galla musei e gallerie?
In Italia non si fa mai abbastanza per il patrimonio culturale e questo è davvero un contro senso, vista la sua vastità. Siamo seduti su una miniera di diamanti e ci rifiutiamo di estrarli. Però mi fermo qui: non fa parte della mia persona sciorinare prediche da un pulpito. Non sono un politico e lungi da me ammantarmi di competenze che non rispecchiano le mie reali capacità. Ho però il mio pensiero.
Non ti occupi solo di divulgazione digitale; sul tuo blog offri tutta una serie di servizi, tra cui la valutazione di opere d’arte. A novembre abbiamo affrontato la tematica del sessismo e del gender gap nel settore artistico; abbiamo anche accennato alla ricerca condotta dalla piattaforma Kooness dalla quale è risultato che le opere delle artiste valgono 3 volte meno di quelle della controparte maschile, e che quest’ultima guadagna in media il 24% in più rispetto alle artiste donne. Perché ci sono ancora queste differenze fra artiste ed artisti?
Proprio in questi giorni sto leggendo un bel libro: Gesti di Rivolta. Arte, fotografia e femminismo a Milano 1975-1980 connesso ad un’esposizione che si è tenuta presso la Nuova Galleria Morone. Molto spesso alcune libertà, di movimento e di pensiero in quanto donne, le diamo per scontate, ma fino a non troppo tempo fa non era così. Ci sono persone che si sono impegnate per garantirle e la strada da percorrere per una reale parità dei sessi è ancora lunga e tortuosa, come avete sottolineato voi. In realtà penso che queste differenze fra artisti ed artiste siano da inserire in un contesto più ampio. La nostra società, non solo italiana, è stata modellata su una prospettiva fortemente maschile. Potremmo dire che il mondo è stato settato – usando un’espressione che ci fa tornare alla tecnologia – a misura di uomo. E se allarghiamo ancora il campo noteremo come ciò si configuri nella figura del cosiddetto uomo bianco. Del resto uno dei miei filoni di indagine è l’arte contemporanea africana. Il cambio di mentalità da attuare è davvero enorme e su scala globale, non so quando e se questo potrà avvenire. Comunque, tutti noi, nel nostro piccolo, possiamo essere promotori di nuove e più eque visioni.
In copertina: Credit Elisabetta Roncati.