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Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur.
Mentre musei, gallerie, parchi e aree archeologiche, cinema e teatri restano chiusi (si salvano solo biblioteche e archivi), a dicembre il ministro Dario Franceschini ripropone il progetto della Netflix della cultura.
Una piattaforma per la quale il Ministero intende investire circa 10 milioni di euro; a questi si aggiungerebbero i 9 milioni della Cassa Depositi e Prestiti e altrettanti 9 milioni del milanesissimo e privatissimo Chili.
Non bisogna dimenticare i 10 milioni pescati dal Recovery Fund.
Fa da colonna sonora a questo costosissimo film l’assordante silenzio delle sale e dei corridoi vuoti dei luoghi della cultura.
Abbiamo deciso di parlarne con Giuseppe Marco Marletta, Thesinestetico.
THEsINESTETICO
Giuseppe Marco Marletta – Thesinestetico si fa delle domande e le fa a te su Instagram (810 followers) e, recentemente, anche su YouTube. Il suo account social non è certamente il posto in cui troverete semplici lezioni di storia dell’arte (per quello esistono già le figure che lo fanno di professione); a meno che un’opera non vi abbia colpito al punto da riempirvi la testa di domande e togliervi il sonno.
Benvenuto Giuseppe Marco!
Un saluto a voi e grazie per questa chiacchierata.
Il tuo progetto è recentissimo e cresce davvero velocemente; è un Jack Charles Powell di Instagram.
Mi fa sorridere molto questa citazione di Jack Charles Powell perché per i miei amici storici io sono nato vecchio. Ed hanno ragione! Thesinestetico è nato a gennaio 2020 sfruttando la mia pagina IG personale che fino a quel momento avevo utilizzato solo per osservare il social e senza creare contenuti. Infatti, il nome attuale l’ho deciso a marzo; per i primi mesi la pagina aveva il mio.
Il progetto è nato dalla voglia di condivisione, dalla mia infinita curiosità e dalla necessità di esprimere un punto di vista e di conoscere quello degli altri.
Uno dei miei amori durante il liceo è stata la storia dell’arte, e alla fine mi ci sono anche laureato, nel lontano 2008. Era naturale, quindi, per me volermi occupare di arte. Ma desideravo avere un approccio diverso rispetto agli altri ottimi profili già esistenti, più emotivo, partecipativo e a doppio binario; quindi ho deciso di rendere pubblico quello che succede nella mia testa quando vedo un’opera d’arte: mi faccio delle domande, e queste domande possono anche non avere nulla a che fare con la specifica opera.
Su YouTube hai adottato una linea diversa rispetto all’account IG. Perché questa scelta?
Ho adottato una linea diversa perché è un social profondamente diverso. È molto più impegnativo e complicato, con creators che fanno prodotti di alto livello. Su YouTube sento di poter dare qualcosa a livello divulgativo, rivolgendomi ad uno specifico target, lavorandoci più a lungo e uscendo molto meno spesso. E siccome la voglia di divulgazione è comunque presente in me, ho pensato che questo potesse essere il posto adatto. Ovviamente ho ancora tantissimo lavoro da fare.
Gli IGTV di Thesinestetico non durano molto, spesso non superano i 6 minuti. Su YouTube, invece, ti dilunghi di più. In un mondo in cui l’attenzione per una notizia si limita – al massimo – al titolo, e un Reel/TikTok fa più visualizzazioni di un normale post, è ancora efficacie un video che supera i 5-10 minuti su YT?
Su YouTube gli utenti accedono per vedere video, non foto, e sanno che ci spenderanno del tempo. Se vuoi passare al video successivo non devi fare un semplice swipe, come su TikTok; lo devi scegliere ed anche se lo scegli, probabilmente fra i preferiti, comunque hai tu il controllo.
In generale, dai commenti vedo una community più esigente e più coesa, fatta di persone anche disposte a finanziare – tramite Patreon, ad esempio – i creators. Per questo credo che non solo sia efficace superare i 5 minuti, ma addirittura che sia necessario e doveroso farlo.
Non sei un art sharer in senso stretto, quello che fai online con Thesinestetico va oltre la spiegazione o il commento ad un’opera o la promozione di un evento culturale. Tuttavia, questo non è un limite alle domande di rito.
Il mondo dell’arte e della cultura ha bisogno della figura dell’art sharer? Il suo ruolo può davvero spingere verso una nuova e prolifica forma di valorizzazione del patrimonio culturale italiano?
Sì, c’è bisogno di art sharers. E ce n’è bisogno perché, arrivati a questo punto della nostra evoluzione digitale, il mondo dell’arte rischia altrimenti di rimanere fuori dal circuito della condivisione di comunità che ormai è il vero traino di qualsiasi attività e lo sarà sempre di più. Inoltre, visto che purtroppo – e questo lo dico con una vena di triste polemica – a quanto pare, ormai i beni culturali vengono considerati sempre di più come una forma di intrattenimento che deve competere con altre forme di intrattenimento, non si può proprio pensare di rimanere fuori dai circuiti della condivisione sui social. Che poi questa cosa sia veramente e profondamente prolifica per la valorizzazione, beh, questa è tutt’altra storia. Una storia molto complessa, ampia e delicata.
Il modo di raccontare l’arte sta davvero cambiando? Potrà evolversi in qualcosa di diverso, o resterà legata agli stilemi che la incardinano all’immagine stereotipata del salotto elitario?
Il modo di raccontare l’arte è già cambiato. Ma attenzione, possiamo spingerci a dire che prima il racconto non esisteva proprio. Esisteva la storia dell’arte, studiata con metodo scientifico e vari approcci metodologici nelle università e nelle accademie, e poi c’era il circuito abbastanza chiuso dei mercanti e degli amanti dell’arte. Certo, esistevano i libri commerciali di arte, ma sempre troppo costosi. E in più gli artisti erano veramente in balìa del mercato.
Con i social questa prospettiva è stata completamente stravolta, ed in linea di massima secondo me questo è un gran bene. Faccio solo un esempio: artisti fenomenali come Jago, senza i social, avrebbero rischiato di rimanere soffocati dagli umori della critica e del mercato. Certo, rimane un problema fondamentale e grandissimo: adesso abbiamo il racconto dell’arte ma, se non stiamo attenti, incombe sempre il problema della banalizzazione.
Le art sharer con cui abbiamo chiacchierato finora hanno raccontato di rapporti reciprocamente prolifici con i propri followers. Tu sei molto diretto con gli utenti che ti seguono, poni loro le stesse domande che poni a te stesso. Dunque, come risponde il pubblico al tuo lavoro su Instagram?
Il pubblico risponde molto timidamente ed interagisce poco, ma era una cosa che mi aspettavo e che capisco. Le mie domande sono pesanti, toccano la sfera intima del pensiero, ti costringono a svelare una parte di te o comunque del tuo modo di pensare. È difficile condividere questo tipo di intimità sui social. E poi gli argomenti sono per lo più complessi quindi non è facile esprimere un pensiero in un commento. Va benissimo così, io lancio l’idea, ognuno nella propria intimità fa il suo percorso. Ogni tanto comunque mi scrivono in privato e questo, ovviamente, mi rende felice.
I DPCM autunnali non hanno risparmiato i luoghi della cultura, poi se ne sono dimenticati; nelle conferenze stampa non venivano nemmeno menzionati.
Sui social spopolano post in cui vengono contrapposte le immagini delle straripanti vie dello shopping a quelle delle sale vuote dei musei, delle gallerie, dei cinema e dei teatri. Mentre la Rai – tra un tutorial e l’altro – trasferisce qualche programma destinato a Rai5 (l’opera, ad esempio) sui tre canali più seguiti nel tentativo di non condannarci del tutto all’amnesia, il ministro Franceschini propone la Netflix della cultura per salvare e reinventare il settore.
Secondo te può essere realmente un salvagente, o si tratta solo di un costosissimo paio di scarpe di cemento?
No, non è un reale salvagente, è una operazione di marketing. Inoltre personalmente ho forte perplessità sull’approccio alla gestione del MiBACT da parte di Franceschini già dal primo governo Renzi. Mi sembra che questa linea di considerare i Beni Culturali come attrazioni, più che come luoghi di cultura, sia stata troppo spinta fino a diventare potenzialmente dannosa. L’unico modo per salvare la cultura è puntare alla diffusione dell’amore per la cultura, che è un processo dispendioso, lungo e faticoso, ben diverso dal concetto di consumo della cultura come momento di svago.
Voglio dire una cosa, però: al netto di chi è comprensibilmente angosciato perché nel settore ci lavora in modo diretto e vede il suo lavoro e il suo sostentamento venir meno, io non ritengo che la chiusura dei luoghi della cultura, anche se prolungata per diversi mesi, rappresenti un reale danno per la cultura. La cultura subisce danni veri in modo molto più subdolo, grave e continuativo.
In copertina: Credit Giuseppe Marco Marletta – Thesinestetico