Di Annalisa Biggi
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Mai come in queste ultime settimane ci siamo sentiti uniti, simili, pari di fronte ad un virus che non conosce confini. Tutti costretti ad una vita diversa, ad una quotidianità non tanto quotidiana. E così, insieme agli appelli, gli ordini imbellettati dagli hashtag, si fa strada anche la cara vecchia morale pseudo-democratica dell’uno è uguale a uno.
“Siamo sulla stessa barca!”. Si, effettivamente la quarantena ha costretto ad una omologazione di abitudini senza precedenti. Inutile dire che raramente ci si omologa verso le più alte vette… In ogni caso, sempre di omogeneizzazione si tratta. Routine quotidiane rimpinguate di esercizi ginnici, ricette e maratone di serie TV ci fanno sentire più simili l’uno all’altro. Orde di pseudo esperti si premurano di offrire opinioni, idee, asserzioni che si mescolano a quelle sempre meno autorevoli di chi al ruolo di timoniere preferisce le più comode sedute dei programmi pomeridiani – ben lontani dalla calma pacatezza delle Fireside chats di rooseveltiana memoria. Mentre altri individui, noti per meriti non immediatamente lampanti, ammoniscono su come lavarsi con accuratezza le mani.
Di un aspetto almeno possiamo gioire: finalmente l’arte ha quasi raggiunto livelli di fruibilità, non sperabili fino a qualche tempo fa. Serviva un lock down completo e globale per permettere la visita online e gratuita nei più importanti musei. L’arte è tornata ad appropriarsi delle “strade”, proprio adesso che non le può riempire. E Banksy, la cui ostilità verso l’istituzione museale è diventata più proverbiale che realistica, non poteva che cogliere l’occasione di agirne al di fuori, secondo le modalità previste in questi tempi di restrizione.
Sul suo profilo Instagram l’uomo senza volto ha mostrato l’irriverente azione dei suoi Rats che, da bravi cittadini, vandalizzano, sì, ma il bagno di casa. Il messaggio allegato all’immagine, poi, è senza dubbio largamente condivisibile “My wife hates it when I work from home”.
L’arte di Banksy è di facile ammirazione: i suoi messaggi sono forti, simbolici ed immediati. Ma c’è di più. Infatti, anche l’artista – o gli artisti – Banksy è di agevole appropriazione. È un abito che può essere riempito dalle più diverse personalità. Forse sta in questo la sua grande fortuna? Facendoci sentire un po’ tutti artefici di quei messaggi così poco equivocabili e largamente fruibili? Banksy è frutto del suo tempo e risponde ad un preciso bisogno di coinvolgimento.
Ma il coinvolgimento non è partecipazione. E, pur nell’uguaglianza di diritti e doveri, uno non vale uno.
Avremmo forse bisogno di un’arte che ispirasse ad impossessarci della città, non già tramite stencil, ma rendendoci più protagonisti, tramite una comprensione più profonda della nostra posizione, della società in cui viviamo, e delle trasformazioni che si aspetta da noi.
L’arte è quella rotella dell’ingranaggio che anticipa portando a compimento ciò che nella struttura politico e sociale è ancora in fase embrionale. Forse questo potrebbe essere il momento giusto per superare i tanto noti quanto ormai deliziosi topini di Banksy e sperare in un’arte che non si sieda letteralmente sulla tazza del bagno, ma che ispiri e rispecchi ciò che si spera sia un’umanità rinnovata dopo il passaggio del covid-19. Che risponda a nuovi bisogni e che sappia sollevare altre questioni.