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In un mondo dominato dal COVID-19 e dalla cultura di massa sono due i concetti chiave: organizzare e prenotare.
Quando una persona non possiede questi due talenti (o meglio, li possiede ma non nel tempo libero) e si trova a Milano, all’ingresso di Palazzo Reale, perché voleva proprio (ma proprio tanto) vedere Monet, scoprendo che altre 300 persone vorrebbero concedersi lo stesso sfizio, capisce quindi che necessita di soluzioni alternative ed immediate.
A meno che non abbia con sé la tessera ICOM (che permette di saltare ogni coda), può notare che negli ingressi accanto alla “mostra con la emme maiuscola” esistono altre porte, e oltrepassandole si accorge di un mondo sotterraneo: quello delle esposizioni pensate e non mainstream. Quest’oggi, tale via d’uscita, si chiama Realismo Magico e Corpus Domini.
piano terra, sotto monet: corpus domini
27 ottobre 2021 – 30 gennaio 2022
Il corpo parla, ha sempre parlato, solo che forse lo si è capito solo dagli anni ’60, da quando è diventato tela e argilla, da quando è iniziata la Body Art. Come quando la nebbia a Londra è stata notata solo quando Turner l’ha dipinta.
A Antony Gormley e Joseph Kosuth viene lasciato il compito di essere i capofila dell’esposizione, mostrandoci corpi che subiscono la presenza della vita, la sua violenta sconfitta, fisica, psicologica, mentale. Un misero mucchio di frammenti d’argilla ammucchiati suggerisce una forma umana in posizione fetale, con la testa tra le mani, nella disperazione del proprio essere. Parole in neon sui muri cercano (solo dal punto di vista curatoriale) di dare significato a qualcosa che non necessita d’altro, come fossero distrazioni. La mente, alla fine di tutto, vuole sempre razionalizzare e dare risposte insensate a disperazioni riflessive. Vorresti levare le transenne che ti separano da lei. Il peso della vita si confonde con la misura della materia.

Una risata senza corpo pervade gli spazi, la targhetta enuncia “Gino de Dominicis, D’io”. L’opera racchiude la convinzione di un’onnipotenza che non dovrebbe appartenerci e che sembra infatti culminare in una risata legata più all’isteria che al potere, come a realizzare che sei “nulla”. A due passi più in là lo stesso suono acquista tutt’altro significato, rimbomba, e ti rimanda al disprezzo. Un monumentale cumulo di vestiti scuri e senza forma abita e sovrasta la sala, restituendo l’effetto che qualsivoglia forma di dittatura adotta su minoranze: cancella corpi, volti e identità, connota negativamente la parola “uguaglianza”.

L’intera mostra vuole portare lo spettatore a spostare i propri immaginari (politici, sociali e individuali) sul corpo, facendolo riflettere sulla crisi dell’esistenza umana alterata da una cultura che promuove corpi finti (come gli ideali stessi), che in questa mostra si alternano agli oggetti e alle voci di individui anonimi o dimenticati.
I am here evoca la Guerra, una scultura iperrealista raffigurante un guerrigliero mediorientale, armato di Kalashnikov, quasi novello cavaliere dell’apocalisse, scruta attraverso un foro, simbolo di una cultura che osserva il nemico cercando di difendersi. Lo spettatore se non conoscesse il soggetto vedrebbe solo un occhio, umano quanto il proprio, e non la paura (reciproca).

Un malessere che si trasferisce nella quotidianità, nel nostro tentativo di adeguarci a questo mondo da noi stessi costruito. Charles LeDray, in MENS SUITS, presenta tre atelier con vestiti miniaturizzati, per corpi piccoli. Sono il simbolo di una realtà di cui siamo artefici, ma che al contempo risulta vuota, desolante, come un cappio al collo. Sul finire dalla mostra Michal Rovner, con le sue installazioni, rappresenta esseri umani indistinguibili, piccole formiche, prive di ogni identità, politica e sociale, senza fisicità e peculiarità. Deserti di uomini e donne che si perdono nelle trame del mondo, vagabondi senza meta.


In contemporanea a violenza e malessere c’è l’altra faccia della medaglia, rappresentata da sorrisi, corpi perfetti e situazioni idilliache, immobili nella loro felicità. Le fattezze delle Nuotatrici affascinano lo sguardo grazie alla loro leggerezza, sembrano galleggiare nello spazio, una di esse sembra danzare, l’altra rimane dolcemente appoggiata su un gonfiabile, che la sostiene come fosse priva di peso, irreale. I loro corpi perfetti sono accompagnati da espressioni serene e da occhi chiusi, intrappolati in un dolce sogno di perfezione.

Due estremi: consapevolezza e spietata realtà. Nella stessa sala viene esposto Crystal Landscape of Inner Body di Chen Zhen e Tourist II di Duane Hanson.
Il secondo è la rappresentazione iperrealistica di una coppia di turisti, di mezza età e in sovrappeso, vestiti con i classici abiti richiesti dallo stereotipo stesso, specchio del consumismo, di chi vede e non osserva. Il primo ci mostra su un tavolo operatorio trasparente degli organi umani in vetro, puri seppur fragili, incapaci di nascondere alcunché, spiritualmente ripuliti dalla nostra cultura malata. Sorge una domanda a cui si necessita trovare risposta: siamo paesaggi di cristallo o anonimi turisti? Una risposta in sospeso tra l’autocritica tanto difficile da imporsi e il desiderio di sentirsi migliori.


PRIMO PIANO, A DESTRA DI MONET: REALISMO MAGICO
19 ottobre 2021 – 27 febbraio 2022
Varcata la soglia l’impatto è forte: ogni immagine che ci si ritrova davanti richiama a gran voce il “ritorno al classico” tanto voluto in epoca fascista, tanto in Italia quanto in Germania, ma quelle opere vogliono comunicare altro.
È una mostra particolare, perché presenta uno stile che col tempo si è trasformato in un movimento artistico. Evitato a lungo e messo in disparte per via del difficile periodo storico nel quale si è collocato (dal 1920 al 1935), considerato figlio del fascismo e sul quale si era dovuto mettere un velo, obbligandolo ad una momentanea damnatio memoriae.
La definizione Realismo Magico venne coniata da Franz Roh il quale parlò di un processo di scoperta che non andava dall’oggetto allo spirito, ma da questo agli oggetti, i quali davvero, nel momento in cui li osservi, sembrano così reali a tal punto che sembrano muoversi perché animati dal “soffio vitale”.
I quadri sembrano in bilico tra la metafisica e il ritorno all’ordine, cercano la forza dal passato per vivere nel futuro. Sono però distanti dal pensiero nostalgico e idealizzato della “gloria romana” pubblicizzato dal regime fascista.
Le opere sono infatti rappresentate in modo talmente reale da risultare inquietanti: oggetti, corpi, visi, paesaggi sono estremamente concreti ma quasi sospesi, come a celare l’intenzione dell’artista di comunicare tanto di più. L’apparenza al realismo e al classico è invece maschera capace di esprimere la visione interiore dell’artista, fornendo un’interpretazione personale della realtà, vera nei più minimi dettagli.


Oltre alla potenza delle immagini di De Chirico e di Carrà due sono gli artisti che più sono riusciti, a mio avviso, a donare questa sensazione: Felice Casorati e Cagnaccio di San Pietro. Se il primo presenta immagini quasi ieratiche e che sembrano essere ermetiche nella loro invece infinita fragilità dell’essere, il secondo presenta realtà crude e violente, mascherate da un utilizzo accademico nell’esplorazione anatomica dei corpi.



La sala “dedicata” ai bambini forse non è la più esplicativa del genere, ma è sicuramente d’effetto. Dipinti con tratti che tentano sia di coglierne l’innocenza sia una traccia del futuro che li attende: nessuno degli infanti accenna un’ombra di sorriso.
Il quadro più grande, Bambini che giocano, attira lo sguardo in quella che sembra una scena vista molte altre volte, ma manca un ingrediente: la gioia. I bambini sono cupi, i loro corpi vuoti: l’infelicità e l’apatia dipinta sui loro volti non sono dovute al richiamo di un adulto, ma piuttosto insite nell’atteggiamento di bimbi cresciuti prematuramente, coscienti del malessere al quale sono destinati, trasferito loro dai genitori.
Era un modo di fare arte che non voleva esaltare la gloria del periodo ma che, per via del realismo, ne concretizza visivamente la pesantezza.


Immagine copertina: Duane Hanson, Tourist II. Credits: Sophia Radici.