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A proposito di capolavori e album d’avanguardia. Immaginiamo per un istante di tornare agli anni ’60: un’epoca di grandi cambiamenti e rivoluzioni, con avvenimenti politici e socio-culturali che si susseguono freneticamente e che segneranno, in maniera profonda, il corso della storia (si pensi ai movimenti di protesta del Sessantotto, alla costruzione del muro di Berlino, allo sbarco sulla luna, al movimento hippy e alla guerra del Vietnam).
Discorso analogo dal punto di vista musicale: sono gli anni della cosiddetta “svolta elettrica” di Bob Dylan, culminata nel concerto al Newport Folk Festival del ’65, con la quale il menestrello di Duluth si scrollerà di dosso, finalmente, l’immagine del giovane profeta, erede di Woody Guthrie.
Sono quelli anche gli anni della consacrazione di Jimi Handrix con la sua esibizione al Monterey Pop Festival, senza dimenticare l’evento per eccellenza, che come un gigantesco punto esclamativo chiude gli anni Sessanta e inaugurano il decennio successivo: il festival di Woodstock.

Immaginiamo adesso…
di trovarci nelle prime ore del mattino di un primaverile primo giugno del 1967 e di assistere ad un evento che cambierà per sempre la storia della musica e della cultura in generale: le note di un album fresco di incisione, provenienti dalle casse di un impianto posto sulla finestra di un palazzo in King’s Road, scuotono il silenzio delle vie di uno dei quartieri di Londra.
I responsabili, quattro giovani scousers, hanno appena concluso di registrare negli Abbey Road Studios della EMI, e con una copia – la prima – in acetato annunciano in anteprima l’uscita del loro nuovo lavoro: sono i Beatles e quello che suona è il loro ottavo (in cinque anni!) album, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Sì perché questo del gruppo di Liverpool è uno di quegli album che costituiscono uno snodo fondamentale per comprendere l’evoluzione della musica e dell’arte contemporanea, apportando innovazioni sotto tutti i punti di vista. Un album pieno zeppo di “prime volte”, a partire, naturalmente, dalla sua copertina: se infatti cercassimo un esempio – o per meglio dire l’esempio – che racchiuda e sintetizzi tutti gli anni ’60 in una solo immagine, non potrebbe che essere questo.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
Ma andiamo con ordine. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band si presenta come il primo, vero, concept album dei Beatles e, in assoluto, il primo a fissare la concezione moderna del termine. Il filo logico che unisce, idealmente e musicalmente, le tredici tracce contenute nel disco vede all’opera quattro musicisti dell’immaginaria “Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper”, interpretati da Lennon e soci.
Eccoli, dunque, i quattro baffuti componenti della banda, ciascuno con un vestito e uno strumento particolare, circondati da una fitta serie di personaggi, tra cui Bob Dylan, Marilyn Monroe, Einstein, Mae West, Oscar Wilde – originariamente erano previsti anche Gesù, Gandhi e Hitler, poi rifiutati dalla EMI – : un pubblico immaginario insomma, dinanzi al quale il gruppo avrebbe voluto esibirsi. Nella parte bassa sono invece disseminati alcuni oggetti appartenenti a culture diverse, come un candeliere messicano, una bambola della divinità Lakshmi, un televisore, un serpente di velluto, che per anni hanno alimentato le teorie più disparate.
Preparazione per le riprese fotografiche di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Credit.
L’idea fu suggerita da Paul McCartney a Peter Blake, uno dei massimi esponenti della Pop Art britannica, e all’americana Jann Haworth, moglie di quest’ultimo, i quali si occuparono di allestire il collage, con sagome e bambole di gommapiuma. A Michael Cooper furono invece affidate le riprese fotografiche, per le quali furono necessari circa otto giorni di preparazione.
La scelta di utilizzare volti noti della contemporaneità, inoltre, causò ai Fab Four non pochi problemi legati al copyright: vinte le resistenze della EMI, i quattro ottennero da tutti i personaggi, o quasi, il consenso per l’utilizzo della loro immagine, senza pagare alcun compenso.

e veniamo alle “prime volte”
Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è il primo album con una cover “a libro” ed è il primo a presentare sul retro della copertina i testi delle canzoni contenute. Si pensò addirittura di inserire al suo interno dei gadget (baffi finti, toppe degli abiti indossati e altro), ma i costi elevati spinsero gli autori a stampare gli oggetti su carta, che i fan avrebbero potuto successivamente ritagliare.
Molte anche le novità sul piano tecnico. I 129 giorni di registrazione (quasi 700 ore) e la spesa di 25.000 sterline possono dare l’idea della portata dell’intero progetto: furono impiegati per la prima volta dei registratori multi-traccia con nastro da 1 pollice, per non parlare poi delle nuove tecniche di registrazione sperimentate (microfoni inseriti dentro bottiglie d’acqua piene, posizioni scomode per assumere particolari tonalità di voce ecc.) che spinsero al limite delle loro capacità tutto lo staff di Abbey Road.

Dopo quel primo giugno del ’67, nulla fu più come prima: cambiò la storia della musica e cambiarono i presupposti della Cover Art, con l’ingresso, ormai definitivo (il battesimo del fuoco avvenne circa tre anni prima con This is John Wallowitch!!! e, nel marzo del ’67, con The Velvet Underground & Nico, entrambi con copertine di Andy Warhol), della componente Pop. Un’icona senza tempo insomma, oggetto di infinite discussioni, teorie (tra le quali la famosa “Paul Is Dead”) e riproduzioni (la copertina fu parodiata, ad esempio, da Frank Zappa per il suo We’re Only in It for the Money, uscito nel ’68).
In copertina: Peter Blake (art.), Jann Haworth (art.), Michael Cooper (ph.), copertina per Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei The Beatles (1967). Credit.
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