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A chi cercasse di comprendere, negli anni ’50, le ragioni dietro il deciso, e quanto mai evidente, cambio di rotta della sua pittura, Mark Rothko, notoriamente restio a svelare il significato delle sue opere, avrebbe risposto che «si trasmette più forza nel dire poco che nel dire molto».
Ed è chiaro che la scelta di utilizzare le campiture di colore come unico mezzo espressivo fosse rivolta al raggiungimento di quella che egli stesso definì come il fine ultimo del lavoro del pittore: la chiarezza. Un lavoro cioè che mirasse al massimo coinvolgimento emotivo del pubblico, attraverso l’eliminazione di tutti «gli ostacoli tra il pittore e l’idea, e tra l’idea e l’osservatore».
La storia della musica contemporanea e, di riflesso, quella della Cover Art sono ricche di esempi che, come gocce di colore su una grande distesa monocromatica, tendono a distinguersi in modo percettibile dai lavori, precedenti e successivi, di un medesimo autore. Veri e propri “inciampi visivi”, capaci a volte di partecipare al successo di quegli stessi album che, in alcuni casi, si sono poi rivelati essere delle autentiche pietre miliari.
Non mancano infatti artisti che in fase di ideazione hanno deciso di affidarsi ad un particolare colore, contribuendo nel tempo a definire, più o meno volontariamente, il nome dello stesso album (white album, black album, red album, green album e via così), soprattutto quando in copertina vige una totale assenza di ogni, possibile, riferimento a simboli, oggetti, o persone, a fronte del solo e unico protagonista, il colore appunto.

Tra questi album, due hanno scritto una pagina importante di storia della musica: The Beatles, meglio conosciuto come White Album, dei Beatles e Back in Black degli AC/DC. Due capolavori profondamente diversi, pubblicati in epoche – storicamente e musicalmente – diverse, ma che fanno del colore (in questo caso il bianco e il nero) il loro primo, e immediato, strumento di comunicazione.
Sono questi, forse, gli esempi migliori per insistere sul ruolo comunicativo, e per certi versi di sintesi, svolto dalle copertine. Chi si accinga per la prima volta a stringere tra le mani una copia di entrambi gli album potrebbe legittimamente chiedersi il perché di quelle scelte, così strane e a loro modo audaci.
bianco…
Pubblicato nel novembre del 1968, a un anno da Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, The Beatles è il nono album dei Fab Four. Il confronto con il suo predecessore è scontato, oltre che necessario: artisticamente agli antipodi, Sgt. Pepper’s… è conosciuto per le sue vivaci sperimentazioni e per le complesse sovrastrutture culturali che lo rendono unico già a prima vista e ascolto.

White Album, invece, segna un nuova fase, che porterà, da lì a due anni, allo scioglimento del gruppo. Le tensioni e le incrinature nel rapporto dei quattro renderanno quest’album un prodotto privo di quella continuità compositiva che aveva caratterizzato il suo predecessore, tanto che John, Paul e George svilupperanno le proprie idee separatamente (Revolution 9, Blackbird e While My Guitar Gently Weeps sono lì a testimoniarlo), utilizzando studi diversi degli Abbey Road Studios.
E poi la copertina. Lì un’ubriacatura di colori e di simboli, perfettamente in linea con gli eccessi psichedelici dei brani contenuti; qui una distesa senza fine di bianco, priva di ogni «ostacolo» visivo o concettuale, con al centro il titolo dell’album appena percepibile.

Titolo e copertina furono suggeriti da Richard Hamilton, peso massimo della cultura e dell’arte Pop britannica. Dietro la scelta vi è un’evidente quanto implicita polemica nei confronti di coloro che, accecati dai colori e dai toni psichedelici di Sgt. Pepper’s…, fraintesero quelle novità, estrapolandone concetti e rendendole una vera e propria moda.
Ma è anche un bianco che sa di “reset”, di un inevitabile cambio pagina, per una storia che si apprestava a vivere le sue battute finali. All’interno della cover del doppio LP (il primo della band!), sono presenti quattro ritratti, due per lato, dei componenti della band: un anticipo, forse, di ciò che sarà, e annuncerà, Let It Be.
…e nero
Dodici anni dopo, gli AC/DC pubblicheranno il loro settimo lavoro, Back in Black. L’album nasce in un clima di grande attesa e, insieme, di forti dubbi: reduci dal successo con Highway to Hell, la band australiana ha dovuto fare i conti con la tragica scomparsa, avvenuta nel 1980, di Bon Scott, storica voce del gruppo.

Nel clima di incertezza generale, gli AC/DC decisero comunque di portare avanti il progetto, ingaggiando il britannico Brian Johnson. Bisognava insistere sui toni, al limite del profetico, di Highway to Hell, con un lavoro che segnasse una nuova “rinascita” e, al tempo stesso, l’esordio della nuova voce. Il risultato è storia. Back in Black è, ancora oggi, uno degli album più venduti di sempre, e custodisce capolavori come Hells Bells, Back in Black, Shoot to Thrill, con gli irresistibili riff di Angus Young e la voce, per nulla scontata, di Johnson.
Infine la copertina. Proviamo per un momento a immaginare lo stupore di chi, fino a quel momento, era cresciuto a pane e AC/DC: basta solo osservare le copertine per High Voltage o per lo stesso Highway to Hell per fare il pieno di energia. Ma in fondo, quella scelta non poteva che essere la sola possibile. L’album, che si apre con il rintocco delle campane di Hells Bells, e la copertina, totalmente nera e con i soli nomi in rilievo, sono un chiaro e commosso tributo a Bon Scott.
Ma anche in questo caso è un nero che parla di un “cambio di pagina” in atto, in modo del tutto diverso rispetto a White Album: se in un certo senso quest’ultimo destruttura quanto sperimentato in precedenza, avviando l’intero progetto verso una fine annunciata, Back in Black, al contrario, riparte con convinzione da Highway to Hell e sancisce la rinascita degli AC/DC.
In copertina: Richard Hamilton (concept), copertina per The Beatles dei Beatles (1968); Angus Young (concept) copertina per Back in Black degli AC/DC (1980).