GERMANO CELANT. L’ORECCHIO DEL FIGURATO

Di Silvia Diliberto

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“Non mi sento un uomo di potere. Mi interessa che ci sia sempre la potenza dell’arte. Gli artisti lo sanno e per questo mi danno molta fiducia”.

Germano Celant

Tante sono le voci degli artisti che si sono unite al cordoglio, nel ricordare il brillante teorico Germano Celant, ricoverato da due mesi nella terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano e morto il 29 aprile. Di ritorno dagli Stati Uniti, dove era stato per l’Armory Show, aveva manifestato i primi sintomi da Coronavirus; così, in seguito a complicazioni dovute anche al diabete, all’età di 80 anni, ci lascia una delle personalità artistiche più fervide del panorama artistico contemporaneo.

Una vita dedita alla potenza dell’arte quella di Germano Celant, figura del tardo dopoguerra che più di tutti ha rizzato l’orecchio per ascoltare un’ipotesi di poesia vicina. Egli diventa l’interlocutore perfetto, il destinatario ideale di una proposta che si stava formando a ridosso degli anni settanta da un nutrito gruppo di artisti, mossa dalla volontà di rompere dalle forme costituite e rovesciarle.  Sente l’immanenza di una rivoluzione e decide di dar voce a quella che è stata definita una guerriglia sistematica all’interno del sistema dell’arte, coniando il termine “Arte Povera”. Oggi lo ricordiamo come il movimento più sovversivo della storia italiana, eppure Celant ribadisce più di una volta di non aver inventato nulla, “Arte povera è un’espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica dell’Arte Povera.

Fiuta un ponte che potrebbe restituire all’arte quella dimensione scalare persa, vale a dire l’apertura di uno spazio ben più ampio, di una dialettica ben più vasta, un figurato che abbracciasse il fonetico e l’olfattivo e che si proponesse come una partecipazione all’evento artistico. L’attitudine, a detta di Celant, era quella di un ritorno all’evento, alla filosofia dell’azione, in contrapposizione alla mercificazione e alla cultura dei consumi. Il movimento artistico si basava sulla riappropriazione del rapporto uomo-natura, sulla manifestazione della caducità. Uno spazio differenziato per lui poteva essere l’unico spazio dell’arte. Non più spazio neutrale, staccato dal contesto, piuttosto un’arte che si fondesse con il quotidiano, spazio inserito in un’identità secolare, in una condizione politica intesa come polis – dove vivo? Dove vive l’animale? Dove vive la cultura che si sta producendo?

Ritratto di Germano Celant, Credit

È un sentire europeo che, dal punto di vista formale, si traduceva nell’utilizzo di elementi non tradizionali, di natura organica, poveri, deperibili, privi di valore intrinseco. Gli stessi materiali di cui è fatta la vita: dall’acqua al fuoco, al legno. I materiali dei poveristi sono accostati in modo semplice, evocando presente e passato insieme. Gli artisti approdano alla primordialità degli elementi, definendoli all’interno di rapporti basati sull’energia, così come l’elettricità o la gravità. Le opere subiscono modifiche e agiscono nell’interazione fra di loro e con lo spazio che li ospita. Così, non sono più oggetti, diventano processi, che avvengono in un tempo definito o che devono essere in qualche modo innescati.

Là un’arte complessa, qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo ‘reale’ (Marx), la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche ogni discorso visualmente unico e coerente (la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!), l’univocità appartiene all’individuo e non alla ‘sua’ immagine e ai suoi prodotti”.

Germano Celant

Così introduceva le fila di un discorso artistico che ha portato avanti per tutta la sua esistenza. L’attrazione per l’altro è il solo modo di nutrire l’arte, per questo è impossibile inserire all’interno delle unicità un metodo coerente. Individua in Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Pino Pascali, Piero Gilardi, Giovanni Anselmo, Mario Merz, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio ed Emilio Prini una diversità di fondo necessaria per costituire una realtà che riflettesse la complessità del mondo contemporaneo. Accanto a questo gruppo tutto torinese, di fondamentale importanza è il lavoro degli artisti romani tra cui spiccano Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro e Jannis Kounellis. A Torino, grazie al lavoro di Gian Enzo Sperone e altri critici, collezionisti e galleristi, l’Arte Povera si fa conoscere nel mondo con la mostra Arte Abitabile alla Galleria Sperone nel 1966. Nel 1967 ha luogo la mostra alla Galleria La Bertesca di Genova Arte Povera – Im Spazio. La mostra che segna la definitiva consacrazione dell’Arte Povera è Live in Your Head. When Attitudes Become Form, organizzata nel 1969 da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, riproposta nel 2013 da Celant – in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas – alla Fondazione Prada.

Veduta della mostra Arte Abitabile, Galleria Sperone, Torino, 1966. Credit

Emilio Vedova viene invitato da Germano Celant a partecipare alla mostra “The Italian Metamorphosis, 1943 –1968” al Solomon R. Guggenheim di New York (poi al Kunstmuseum di Wolfsburg), dove espone le “geometrie nere” del 1950, teleri degli anni ‘50/’60 e il Plurimo n°5 (sospeso) dell’Absurdes Berliner Tagebuch ’64. Credit

Non si può parlare di Arte Povera senza chiamare in causa Germano Celant, e viceversa. Egli si è distinto per il suo udito particolarmente sensibile e sviluppato, sempre pronto ad ascoltare e a figurare una struttura anche dell’elemento più ineffabile. Lascia un vuoto nel mondo dell’arte e ancor di più nel cuore degli artisti, che da oggi non potranno più godere delle sue visioni aperte.

Igloo di Mario Merz in occasione della mostra Attitudes Became Form riproposta da CelantWhen nel 2013 alla Fondazione Prada. Credit

Immagine di copertina: Germano Celant, Credit

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