Di Chiara Sandonato
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Al-Batin / The Hidden è il progetto realizzato dalla fotografa veronese Valeria Gradizzi, con lo scopo di trasmettere al mondo il volto femminile dell’islam.
Una preziosa sequenza di foto scattate tra Iran e Turchia, in mostra dal 18 al 22 settembre 2019 alla Galleria Bottega Immagine, immortala la pratica mistica sufi e la danza sacra delle donne derviscio rotanti.
Quante persone sono a conoscenza di questa realtà segreta, tutta al femminile? Poche. Se vi imbatterete in Valeria Gradizzi e nelle sue fotografie, state certi che scoprirete qualcosa di sensazionale, di cui prima non sospettavate. Dallo stato di trance delle donne sufi nel momento della comunione con Allah, alle comunità degli africani albini in Tanzania, nascosti per sfuggire al pericolo di essere uccisi o venduti a pezzi a causa della superstizione e del pregiudizio.
La Gradizzi indaga il mondo alla ricerca dell‘inedito, dell’unico, dell’eccezionale e cattura ogni elemento con la sua macchina fotografica, risucchiandolo in un universo in bianco e nero.

Ciao Valeria, come è nata la tua passione per la fotografia e quando è stata la prima volta che hai preso in mano la macchina fotografica?
La mia passione per la fotografia è nata da quando ero bambina. La prima volta ho preso in mano una Kodak di plastica molto simile ad una usa e getta che mi era stata regalata per la mia prima comunione. Poi purtroppo mia mamma si è ammalata e lei aveva sempre comandato in casa e, quando era in ospedale, non riuscivo a capacitarmi di come lei non vedesse tutti i cambiamenti, le decisioni e le novità che accadevano tra le nostre mura. Così ho iniziato a fotografare la nostra vita quotidiana per potergliela far vedere tramite le fotografie.

Il progetto “Al-batin” che era in mostra a Milano fino a pochi giorni fa, è incentrato su un tema affascinante e inedito: il sufismo femminile. Come sei venuta a conoscenza di questa corrente spirituale e della rivoluzione silenziosa operata dalle donne islamiche?
Tramite un articolo di una giornalista iraniana che si chiama Sara Heyazi.
Come nasce “Al-batin”? Perché hai scelto questa parola come nome per il progetto?
Al-Batin è uno dei 99 nomi di Hallah che nella nostra lingua viene tradotto come L’Invisibile o Il Nascosto. Quando dovevo scegliere il nome per la mostra mi è subito piaciuto l’accostamento tra la preghiera silenziosa e nascosta delle sufi e questo specifico nome di Allah. Nelle tradizione islamica Hallah viene pregato appunto con 99 nomi diversi mentre il 100esimo è riservato solo a coloro che ascendono al paradiso.
È stato difficile trovare le donne sufi e instaurare un rapporto con loro?
Trovare le donne è stato estremamente difficile data la natura segreta dei loro incontri. Sono comunque riuscita a trovare degli agganci in loco che mi hanno portata poi a conoscere queste donne meravigliose che mi hanno accolta e dato la possibilità di fotografare dei momenti unici ed estremamente intimi della loro preghiera.
Durante il tempo che hai trascorso in Iran, hai percepito nelle comunità femminili a cui ti sei avvicinata, una visione del mondo molto distante dalla tua? Cosa hai ammirato di più nelle donne immortalate nei tuoi scatti?
Al di là della religione e della cultura che sicuramente è profondamente diversa da quella occidentale. Nel medioriente esistono comunque donne molto forti e devote che possono ricordare alcune donne occidentali. Certo è che i loro costumi, tradizioni e stile di vita sono profondamente radicati nel tessuto del luogo in cui vivono. Ammiro molto il fatto che possano amare in un modo così potente Dio.

Nei tuoi reportage – da AL-BATIN a WHITE SHADOW – UNDER THE MANGO TREE, fino a ECHOES OF PAIN – emerge un occhio indagatore capace di entrare nel profondo di realtà complesse. Nel tuo lavoro come fotografa, quale spazio trova la partecipazione emotiva alla sofferenza e al dolore che viene immortalato nelle tue opere?
Grazie alla macchina fotografica posso separarmi dalle situazioni che riprendo nel momento in cui le fotografo. È ovvio, poi, che quando si torna a casa il bagaglio emozionale che si assimila inevitabilmente di fronte a tanta sofferenza e sentimenti forti è qualcosa che non ti lascia mai.

Di recente è stato presentato il nuovo libro di Vincent Lavoie L’affaire Capa. Processo a un’icona, che affronta un tema delicato: la veridicità di ciò che è rappresentato. Secondo te, nel reportage è sempre valido l’assioma fotografia = verità\realtà?
No. La fotografia anche solo dal momento in cui inquadri una scena, ti sta raccontando la realtà filtrata dalla mia visione e dal mio obiettivo. Poi si può stare attenti a non allontanarsi troppo da ciò che succede, ma la verità è tutt’altra cosa.

Esiste un momento, secondo la tua esperienza, in cui il fotografo deve fermarsi? Esiste qualcosa che non è giusto raccontare?
Si, secondo me ci sono dei limiti che sicuramente si legano a una questione etica personale. Non c’è una regola, ognuno di ciò che fotografa poi sceglie di pubblicare una o un’altra immagine a sua discrezione.
Puoi raccontarci un aneddoto che possa illustrare un legame che è nato tra te e un soggetto che stato fotografato durante i tuoi progetti?
Sono rimasta profondamente affezionata e sono ancora in contatto, andando anche a trovarli di tanto in tanto, con i bambini albini del progetto White Shadow.

L’ultima domanda, di carattere stilistico, riguarda la scelta di creare un mondo in bianco e nero. Si tratta di una scelta estetica, oppure assume anche un significato simbolico legato alle tematiche raccontate attraverso le tue immagini?
Ho scelto di fotografare in bianco e nero perché è il modo in cui io vedo la realtà. Ci sono persone che sono più brave con i colori, io preferisco la visione dualistica che trasmette la fotografia in bianco e nero.

In copertina: Valeria Gradizzi, Al-batin \ The Hidden