INTERVISTA AD AQUA AURA. L’ILLUSIONE DELLA REALTÀ

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Aqua Aura è una maschera – e al tempo stesso una seconda anima – forgiata nel 2009, che solo con il passare degli anni si è concretizzata, pezzo dopo pezzo. Aqua Aura allude a una mutazione alchemica, a un cristallo di rocca che, infuso nell’oro, ne acquisisce il riflesso e il suono. Aqua Aura è un’illusione, la rappresentazione di una realtà talmente profonda da apparire all’occhio umano il risultato di un’immagine quasi onirica. La natura sempre presente nelle sue opere è generatrice di mondi sublimi, ambienti macroscopici di sintesi colorati che vedono aleggiare piante, dettagli urbani, ingrandimenti di cellule, ghiaccio, lacrime, virus e tanto altro.

Aqua Aura, “MONEMA TWINS #2”, serie THE GRAFT, 2018, Stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone montata su Dibond, cornice lignea. Credit

Ci racconti come nasce la mostra Nocturnal Flights, attualmente esposta a Reggio Emilia presso la galleria “VV8 Artecontemporanea”?

Non so a quanti sia capitato di vivere l’esperienza di un volo notturno (Nocturnal Flight); attraversare continenti, porzioni di globo, nel buio della notte. Per quelli che come me in quelle circostanze non riescono ad affidarsi al sonno, quella successione di momenti sono un volume di spazio-tempo in cui percezione e immaginazione si confondono; un meta-luogo che insieme a piccole particelle di tempo ibrida esperienza e metafisica. Nel silenzio, con le luci attenuate, ascoltando il mantra soffuso dei motori, ci si trova in uno spazio fisico che però è sospeso in un “nessun luogo”, a metà strada tra la gravità terrestre e il vuoto cosmico. Fuori dal nostro “involucro volante” il mondo c’è eppure si confonde. Da lontano osserviamo cose che possono essere altro da quello che sono: vulcani in eruzione che appaiono come filamenti di galassie, banchi di neve come screziature su una tavola astratta, il piano oscuro e muto dell’oceano che si rivela come sfarfallio continuo di scintille. Tra la partenza e l’arrivo il mondo è e non è. Allo stesso modo, il luogo di origine di un’opera d’arte mi sembra molto simile a quello spazio-tempo.

Anche la mostra Nocturnal Flight si è trasformata, in questo particolare e surreale momento di Coronavirus, in un oggetto enigmatico. Giustamente, secondo le direttive del nuovo decreto, l’esposizione è ora chiusa. Un “oggetto” costruito per farsi guardare si è reso ora invisibile. Sembra assurdo affermarlo, eppure, in questa strana sospensione tra l’essere e il non essere, pare aver raggiunto pienamente l’universo delle sue premesse concettuali.

Nocturnal Flights è anche il titolo di una delle opere che compongono la mostra. L’opera che ne porta l’architrave e da cui tutto si dipana. Il polo attrattore nella geografia della galleria una piccola installazione composta da libri letti, abiti usati e da se stessa in quanto opera d’arte.

Come nasce la decisione di inserire immagini osservate da un microscopio elettronico? La fotografia porta con sé la possibilità di incorniciare il reale e il microscopio è per te un’ulteriore protesi dell’occhio umano, un espediente usato per indagare la realtà più profonda quella che l’uomo non riesce a vedere ma solo a percepire?

La tua domanda contiene in sé la risposta. È proprio in virtù della facoltà ipertrofica del nostro sguardo, in particolar modo nella nostra epoca, che considero le possibilità di “osservazione” delle macchine alla pari della percezione dell’occhio umano. La nostra retina non è più l’unico recettore possibile, ad essa si è unita una schiera di “osservatori tecnologici” che guardano dove noi non possiamo vedere. Il regno del reale si è esteso, i nostri nuovi molteplici occhi ci consegnano un reale formato tanto dall’esperienza visibile quanto dal magma oscuro dell’invisibile. Apparteniamo alle prime generazioni che possono osservare un complesso universo parallelo che ci si muove intorno, lontano e dentro, in profondità.

Riguardo le specifiche tecniche, che ruolo ha la post-produzione nelle tue fotografie e installazioni? Vi è indubbiamente una manipolazione dell’immagine, essa fa apparire le immagini surreali e oniriche, ed è ciò che più mi affascina.

Ritengo che un’immagine sia sempre un artefatto. Per quanto mi riguarda, io considero gli strumenti della post-produzione come parte integrante del processo di scatto o di creazione. Il generatore naturale di un’immagine digitale non è la macchina da ripresa ma la scatola del computer. E in quel ristretto spazio che termina la genesi.

Un tempo i fotografi sviluppavano i loro scatti in camera oscura. Nell’oscurità relativa essi piegavano le loro stampe ad una più forte intenzione progettuale o creativa. Altri autori addirittura eliminavano alla base lo scatto fotografico vero e proprio e costruivano le loro creazioni utilizzando oggetti posati o proiettati direttamente sulla carta fotografica, piegando il loro cono d’ombra al proprio processo demiurgico. Considero il mio computer l’estensione tecnologica di quelle camere oscure. Spesso gioco con i criteri della complementarietà o della vividezza. Questo mi permette di operare da “pittore”, organizzando al meglio la loro sinfonia cromatica come su una tavolozza, lavorando sui contrasti e i loro ritmi interni. Io non sono né il primo, né l’unico né l’ultimo a procedere nel mio lavoro usando questi processi di creazione. Quello che è cambiato è la tecnologia, non le intenzioni.

Da dove proviene il bagaglio delle tue immagini? La natura e i suoi elementi (acqua, aria, fuoco e terra, misti a una natura “più profonda” batteri, virus, globuli rossi e bianchi) sembrano essere sempre presenti come generatori di significati molteplici.

La mia ambizione, il mio territorio utopico, è la costruzione di un ritratto del mondo…ma forse sarebbe meglio dire: un ritratto dell’esistente nel suo insieme, in una sorta di visiva “Teoria del Tutto”. I riferimenti alla natura che puoi trovare nelle mie opere hanno una duplice origine. Se da un lato la natura rappresenta il mio “assoluto altrove“; essa è una delle più grandi esperienze della mia vita intellettuale e sensoriale. Dall’altro la natura è il “grande assente” della nostra epoca. Infatti, nonostante il vasto clamore dell’ultimo periodo, a livello internazionale provocato dal tema del cambiamento climatico e delle sue conseguenze, io continuo ad avere l’impressione che la Natura, nel panorama delle nostre priorità, stia sullo sfondo, ai bordi del proscenio.
Inoltre, devi considerare che nel mio lavoro i processi di costruzione dell’immagine e i suoi riferimenti derivano, per la maggior parte, dal campo della Scienza. Le immagini appartenenti a questa sfera portano ad uno sguardo più esteso di questo “ambiente”. Alla fine questo è ciò che mi interessa.
Andando oltre, mi interessa il modo in cui guardiamo il mondo nelle sue espressioni, come lo percepiamo e come siamo in grado di rappresentarlo attraverso dati oggettivi ma anche attraverso i “fantasmi” di questa nostra stessa percezione.

Come si inserisce il tempo nelle tue opere? In particolare in riferimento al video Millennials Tears: il ghiaccio è composto da acqua, tempo ed emozioni, come simbolo di una bellezza atavica. Esso è intriso non solo di realtà ma anche dell’esperienza umana (nella seconda è compreso anche l’elemento temporale).

Il Tempo, come hai già ben capito, è per me un importante terreno di riflessione. In particolare, trovo struggente la distanza che c’è tra il tempo dell’esperienza umana e il tempo dell’opera, insita nelle sue rappresentazioni. Ogni Opera ha il proprio “tempo interiore”, ha la capacità di imbrigliare le cose osservate dentro la loro rappresentazione e portarle con sé. Il suo tempo è “verso l’Infinito”. Essa si oppone alla transitorietà dell’avventura umana. La distanza tra questi due estremi mi emoziona. Anche questa è, in effetti, una forma di religiosità.

L’approccio a Millennial Tears non è facile. Affatto. Ancora oggi lo ritengo uno dei lavori più complessi che abbia realizzato. Il tempo raccontato nell’opera è un tempo doppio. E’ il tempo millenario del ghiaccio che è esso stesso deposito di un’infinita sequenza di tempi e tracce. E’ archivio: esso disegna la geologia emotiva di tutti noi.

Millennial Tears, 2017, video-installazione Full HD a 3 canali, colore, audio, durata min. 30 sec. 15; dimensione complessiva cm 220×1200 Credit

L’altra traiettoria di tempo è quella dell’uomo: un viaggio che nasce dalla dimensione molecolare e va verso lo spettatore, emergendo. Anche questo è un viaggio millenario eppure immateriale: condensato per intero nelle voci di un canto e nelle armonie/disarmonie di un brano musicale.
Per certe mie opere cerco intenzionalmente di costringere lo spettatore a liquefarsi in una condizione simile a quella dell’ipnosi, in un tempo senza tempo, un tempo che vada oltre la memoria ma che non sia ancora accaduto. Invito lo spettatore a non chiedersi ancora nulla di ciò che vede; solo a posarsi sulla superficie delle immagini e abbandonarsi al loro sciabordio. Millennial Tears è così … vuole i tuoi occhi. Vuole che osservi bene senza chiedere, senza pensare a nulla. Lo smembramento, la decostruzione dell’opera arriveranno dopo, con calma.

Osservando le tue opere ho come la sensazione di rivivere le emozioni provate dinanzi un’opera di William Turner impregnata della sua concezione romantica del sublime o dinanzi un’opera di Bill Viola con le sue costanti del tempo e della sacralità nell’opera d’arte. Ti ci rivedi?

Le tue osservazioni mi rendono particolarmente felice e lusingato, direi. Ho poco altro da aggiungere.
Il Sublime è, effettivamente, una delle mie materie di riflessione. Trovo la categoria del Sublime un’estetica in via di estinzione. L’idea di una forma di bellezza che trascenda il particolarismo dell’umano è via via sostituita da un’idea sempre più effimera del pensiero e della percezione. L’estetica contemporanea è sempre un pensiero a scadenza, momentaneo, pronto in ogni istante ad essere sostituito da una teoria altrettanto transitoria. Quindi sì, gettare uno sguardo nel Sublime continua ad affascinarmi come fossi un paleontologo alle prese con un fossile.
Per quanto riguarda la figura di Bill Viola … Doveva essere il 2008, forse il 2009, non ricordo con esattezza. Per puro caso avevo scoperto della grande mostra di Bill Viola a Roma. Non mi era mai capitato di vedere un’intera grande mostra sul suo lavoro, solo sporadiche piccole opere disseminate in qualche remota collezione. Ho annullato gli impegni, il giorno dopo ero in aeroporto, biglietto andata e ritorno in giornata.
Nelle sale del Palazzo delle Esposizioni vi rimasi per qualcosa come 5 ore, bivaccando di fronte ad un’opera particolarmente bella o facendo da pendolo tra una stanza e l’altra, per rivedere particolari e imbastire confronti. Riscesi le scale su Via Nazionale, un altro taxi e ancora Ciampino. Sul volo di ritorno mi sentivo come un ragazzino sgattaiolato da casa, all’insaputa dei genitori, di ritorno, a tarda notte, dal concerto di una qualche grande Rock Star. Quando ripenso a quel giorno mi accorgo che il suo spazio nella mia mente combacia perfettamente con lo spazio delle sale del Palazzo delle Esposizioni e nient’altro. Della Roma di quel giorno non ricordo nient’altro. Adesso che ci penso: non credo di essermi fermato da qualche altra parte, nemmeno per un caffè.

Link utili

https://www.aquaaura.it/it/

http://www.vv8artecontemporanea.it/

In Copertina: Aqua Aura, Monema #3, 2015, Stampa ai pigmenti di carbone su carta cotone montata su Dibond, cm. 105×180 cm – 70×120 cm Edizioni 6 (3+3)

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