Di Laura Carioni
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Torniamo nella New York degli anni Trenta: città vivace e poliedrica, della cultura, animata da idee e opere innovative, dove galleristi ed artisti vivono a stretto contatto grazie al fervente mercato dell’arte. È in questa realtà che troviamo Joseph Cornell, artista prolifico, legato in amicizia a Duchamp, Motherwell, Rothko, De Kooning e Warhol, che tuttavia era e rimase un artista profondamente solitario.
Nato nel dicembre del 1903 a Nyack, NY, iniziò a lavorare come venditore porta a porta intorno agli anni Venti ed è in questo periodo, quando percorreva a piedi Lower Manhattan, che iniziò ad esplorare la città e ad interessarsi alla magia insita negli oggetti: egli era un instancabile collezionista di strani tesori, souvenir, fotografie, stampe, cartoline, biglietti dei tram, scontrini, ritagli, conchiglie, legno o vetro, rami, foglie, bottiglie…
Cornell cominciò ad assemblare le sue prime Shadow Boxes negli anni Trenta del secolo scorso, lavorando nel seminterrato della sua casa di famiglia nel distretto di New York. Negli stessi anni Max Ernst pubblicò La Femme 100 Têtes, un romanzo-collage che colpì Cornell e gli trasmise l’idea che l’arte visiva non fosse soltanto una questione di pittura su tela, ma che poteva anche essere fatta da oggetti reali, stranamente combinati tra loro.
Cornell si rese conto della possibilità di trasformare gli oggetti raccolti, quegli objet trouvé, in opere d’arte cariche di senso e capaci di suscitare emozioni, e lo faceva con una poeticità davvero unica, senza alcun intento dissacrante o ironico. In questo processo Joseph Cornell ricorda molto i grandi collezionisti di un tempo, i suoi assemblage diventano vere e proprie Wunderkammer che espongono il quotidiano riqualificando l’oggetto come rarità preziosa. Le sue opere sono una vera e propria via di fuga in mondi mistici e felici.
Componendo gli oggetti in scatole ben strutturate e seguendo le proprie sensazioni, Joseph Cornell li costringe in un nuovo spazio, dove essi proiettano la propria fisicità, Non si tratta di un’operazione dettata dal caso ma dal ragionamento e da nuovi orizzonti di significato che l’artista attribuisce a ciascun elemento. Cornell riproduce i corpi celesti; le stelle e la luna si trasformano in bolle di sapone o sfere trasparenti; pappagalli si stagliano su ritagli di giornale e ci osservano mentre piccole figure danzano leggere in un cielo terso, tutte fuori dal nostro tempo.
Oggetti d’ogni tipo vengono assemblati in contenitori di legno posti in verticale e coperte da un vetro frontale, uno spazio tridimensionale. Il risultato finale è quello di un mondo privato e molto intimo, carico di segni del tempo, tracce e memorie in cui tutti gli elementi seguono l’elemento del ricordo: gli oggetti quotidiani si tingono di una valenza speciale trasformandosi in mirabilia da cabinet de curiosités. Le boxes di Cornell sono vere e proprie vetrine di sogni.
Le sue creazioni sono eredi di diverse influenze che rispecchiano le diverse tendenze dell’arte americana di quegli anni, debitrice del contatto con la cultura europea: la storia dell’Europa arriva negli Usa ritagliata e ricomposta nel collage, vero e proprio deposito di immagini.
Le scatole di Cornell sono un’evoluzione nonché una rilettura di questa tecnica, che permette di realizzare le opere secondo un meccanismo di risignificazione delle componenti. L’artista rielabora i principi teorici alla base del Cubismo, del Dada e del Surrealismo secondo una visione intima e personale filtrata da una memoria nostalgica. Proprio grazie al collage, Cornell si avvicina all’arte sperimentando il potere del frammento.
Il mondo è bello ma indicibile. Ecco perché abbiamo bisogno dell’arte.
Charles Simic, Il cacciatore di immagini. L’arte di Joseph Cornell, Adelphi Edizioni, 1992
In copertina: Duane Michals, Joseph Cornell, 1972 – DC Moore Gallery, New York.