Di Alba Panzarella
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Le fotografie di Luca Abbadati riescono a trasportare chi le guarda in un mondo quasi surreale, in cui non si sente la presenza di nessuno al di fuori di se stessi e dei propri pensieri. È proprio il desiderio di immortalare il fuorviante, inseguendo sempre una pulizia formale e una linearità – eredità della sua formazione architettonica – la peculiarità dell’artista che abbiamo avuto il piacere di intervistare in una mattina di fine estate.
Parlaci un po’ di te. Come ti presenteresti? Come architetto o come fotografo?
Decisamente come architetto, anche perché fare l’architetto è quello che mi dà da mangiare. In Quarzo Studio siamo in tre, lo portiamo avanti da tre anni e il 99% del mio tempo lo dedico a quello. Indubbiamente mi piacerebbe vivere solo di fotografia, però provare a fare qualcosa di artistico-culturale è molto difficile, soprattutto riuscire a trovare un mercato che ti permetta di vivere unicamente di quello.
Come ti sei avvicinato al mondo della fotografia?
Ho sempre fatto fotografia per conto mio, mi piaceva. Da piccolo mi ricordo che mia zia aveva una Reflex, era mezza fotografa, quindi un po’ mi ha influenzato. Ho iniziato a farlo seriamente all’università, dove avevo bisogno di fotografare l’area per i progetti e allora mi capitava spesso di avere in mano la macchina fotografica. Poi circa tre anni fa i miei amici hanno iniziato a incoraggiarmi a trasformarlo in qualcosa di più, e a furia di rompermi le scatole, mi hanno convinto a provare. Con tanta fatica ho iniziato a prendere contatti e sono riuscito a girare un po’. È stato sicuramente utile perché sono stato costretto a barcamenarmi e capire come si facevano determinate cose.
Se vuoi fare una cosa del genere e non vuoi fare una cosa naive o la fai nel modo giusto o non la fai. È stato un percorso divertente, perché mi ha permesso di scoprire un sacco di aspetti della fotografia che non conoscevo. Ho ancora molto da imparare, però ho fatto esperienza di dinamiche nuove, come ad esempio trovare uno stampatore, conoscere gente per poter riuscire ad esporre, capire le tempistiche. Al momento sto facendo un percorso che non sappiamo dove porterà, però visto che è una cosa che mi piace, cerco di dedicarci più tempo possibile. Penso che se si vuole trasformare una passione, un hobby in una professione sia necessario dedicarvi non ventiquattro, ma ventisei ore al giorno, se no non vai da nessuna parte, soprattutto in Italia.
Parliamo delle tue opere. Hai sempre fotografato questo genere di soggetti?
Io sono nato a Brescia ma sono cresciuto a Leno, dove c’è la casa dei miei nonni. Dodicimila abitanti, nella campagna bresciana nel nulla. Credo che mi abbia influenzato molto tutta quella serie di villette (si può dire?) di merda come quella dei miei genitori. Si tratta di quello sprawl urbano, quella campagna, quelle villettine tutte uguali, identiche, con il recinto… a me piace. Mi attira. È per questo, forse, che fotografo anche situazioni non troppo “degne” di essere fotografate.
Al netto di tutto quello che devo a Ghirri. C’è la ricerca di quello sguardo un po’ laterale, quel fotografare la porta sul retro, perché magari è più reale della porta d’ingresso. Sulla tipologia di foto sicuramente mi ha influenzato molto anche la mia professione. Sono abbastanza architettonico, me lo dicono tutti, ed è vero. Una roba un po’ “matta” che faccio è sicuramente la ricerca della pulizia. Cerco sempre di fare una fotografia il più scarna possibile, non ci sono mai troppi elementi. Troppo complicato. Alla fine tendo molto a ridurre, forse perché ho manie di controllo. In una fotografia cerco sempre quegli angoli in cui ci sono quei pochi elementi forti che riescono ad emergere più facilmente. Al contrario, in un paesaggio carico di elementi mi sembra che il risultato sia un “effetto cartolina”.
Hai mai pensato di fotografare persone?
Mah, in realtà negli Stati Uniti un po’ ci ho provato. Io e Sara, la mia ragazza, abbiamo fatto una vacanza quest’estate, lì ho provato a fotografare i turisti, o comunque tutto il tema della gente che va a farsi fotografare, a farsi i selfie, a fare mille fotografie dello stesso posto. Visitare un posto e accorgersi che tutti fotografavano, ma nessuno guardava.
Il mio intento era quello di riuscire a fare una fotografia che inquadrasse sia la bellezza del paesaggio, che questo mondo di selfie che siamo diventati. Magari è qualcosa a cui continuerò a lavorare in futuro, anche perché la stessa situazione si può incontrare qui in Italia a Venezia, anche a Milano, basta andare in Duomo. In questi momenti non mi sembra neanche di fotografare persone: le persone sembrano quasi far parte del paesaggio. È molto più difficile per me fotografare persone, non mi sento ancora sicuro.
Forse è difficile per qualcuno con le manie del controllo.
Esatto! Non puoi controllare le persone. Mi risulta complicato anche perché con la mia fotografia vorrei provare ad estrapolare, a fotografare il momento per dire qualcosa di più ampio, di archetipico. Se c’è una persona, invece, la fotografia diventa subito particolare, perché tu la contestualizzi in quell’attimo. A me invece non interessa fotografare quella casa particolare, al contrario mi interessa fotografare quella casa per far capire che ci sono molte case fatte allo stesso modo.
Invece la Serie 115, nella casa dei tuoi nonni, sembra molto più personale rispetto al tuo solito lavoro. Non ci sono persone, ma si sente molto la loro presenza.
Era da un po’ che volevo immortalare casa dei miei nonni, più che altro per me, per fissarla nella memoria. I miei due nonni ci sono ancora, però tra un po’ – il più in là possibile si spera – la situazione cambierà. Incredibilmente quella casa è uguale da quarant’anni, immutabile. La casa l’ha costruita mio nonno, faceva l’operaio. È su due livelli, loro però hanno sempre vissuto nel seminterrato, perché al piano terra la cucina e il soggiorno non la potevi sporcare, era quella degli ospiti. Era l’“ufficio bello”, la casa di rappresentanza e non si poteva usare. Per decenni quindi quella parte della casa è rimasta praticamente cristallizzata. Nel momento in cui sono riuscito ad andare lì e a cominciare a fotografare ho avuto l’idea di abbassarmi, posizionarmi proprio all’altezza di quando ero piccolo, 115 cm.
Da bambino ricordo che ogni volta che salivo sopra era tutto un mondo da scoprire, buio e nascosto, perché solitamente mi era proibito andarci. La nonna apriva unicamente per pulire: si svegliava, puliva tutto e richiudeva. In ogni caso anche in questa serie io credo che ci sia l’idea di descrivere, alla mia maniera, un mondo che ogni ragazzo italiano conosce, perché è un’esperienza che abbiamo vissuto tutti, nelle case dei nonni. Ovviamente nelle foto sono tornati anche la geometria, il discorso sulla luce, quello me lo sono portato dietro, però provando a buttarlo su una cosa un po’ più intima. Anche se molti pensavano addirittura che fossero dei set, perché comunque essendo tutto molto ordinato e pulito sembra una casa che non sia stata mai vissuta. Vengono effettivamente i dubbi sul fatto che sia una casa finta, un set costruito. Il che, in realtà, era anche un po’ l’intento, dato che si tratta di un luogo domestico ma non del tutto, perché non viene utilizzato quotidianamente.
Credi che il tuo occhio cambi quando guardi alla natura? In quei casi ti trovi costretto a confrontarti con geometrie irregolari.
Questo perché le montagne non sono tutte uguali, maledette! Anche lì, se ci badi non fotografo quasi mai gli alberi. Le foto della natura non possono essere troppo geometrizzate, ma va bene se ci sono pochi elementi, come in Islanda. Riesco a fotografare solo ciò che è essenziale, se riesco a far emergere pochi elementi. Ho provato a fotografare soggetti più confusionari, ma faccio fatica.
Da un punto di vista proprio di colori e post produzione: questi colori tenui li ricerchi nei soggetti o li crei?
Metà e metà. Per me l’interesse nel ricercare la realtà della fotografia è pari a quasi zero. A me piace fotografare questi luoghi un po’ stranianti, questa è la mia idea. Quindi è ovvio che la base di partenza sia adeguata a questa idea, con determinati colori. Poi in postproduzione di solito lavoro sui rosa e sui blu, perché comunque anche attraverso il colore cerco di trasmettere una sensazione. Mi piacerebbe che chi guardasse le mie foto si sentisse galleggiare. Il discorso che mi preme di più è quello sull’assenza, sullo smarrimento, che ti lascia incerto di che cosa tu stia realmente osservando. Ormai nel 2020 anche basta con “la fotografia racconta la realtà”. No. La fotografia racconta – ma anche un fotoreporter che va in una zona complicata, fotograferà la “sua” zona complicata. Perché basterebbe magari girare la fotografia di 90° per incontrare un’altra situazione, un’altra zona. Una persona, a seconda della fotografia che vede, decide se accettare quella realtà o meno.
Chiudiamo con la tua professione da architetto. Ho visto che siete molto indirizzati verso la bioarchitettura.
Si, con Quarzo Studio l’obiettivo è provare a spingere il più possibile sulla bioedilizia. Noi facciamo case di paglia, pensa a case prefabbricate con strutture in legno: semplicemente al posto di mettere tra i pilastri il mattone, noi mettiamo la paglia. La paglia è chiusa e protetta, la devi solamente proteggere dall’acqua che è il suo unico problema. I costi non cambiano tanto, la qualità degli spazi, del vivere e della filiera sono diversi. Ci sono tutte una serie di positività: è più naturale, garantisce una maggiore traspiranza, all’interno il suono è molto più ovattato, c’è una qualità del vivere più elevata. Non abbiamo inventato niente di nuovo – costruivano in paglia miliardi di anni fa – abbiamo semplicemente ripreso una tecnologia passata che era stata dimenticata. I giovani sono più aperti all’idea di queste nuove case, se gli spieghi che non arrivano i tre porcellini a soffiare e non c’è il problema del lupo. Di questo siamo contenti. È complicato, però c’è sempre speranza.
Dove possiamo vedere le tue opere prossimamente?
A fine ottobre dovrei fare Paratissima: vorrei provare a portare qualcosa proprio sugli Stati Uniti.
Credits: foto di Luca Abbadati
Instagram: @_abbino