PAESAGGI APOCALITTICI. INTERVISTA A BARBARA NATI

Di Laura Marasà

Tempo di lettura: 4 minuti

Lo sfruttamento umano delle risorse naturali è il tema che viene fuori dai lavori di Barbara Nati. Con i suoi collage digitali, l’artista inserisce in paesaggi consueti, talvolta dai toni fiabeschi, le violente incursioni umane. Barbara agisce sui suoi quadri come l’uomo fa con la natura, sovvertendola e generando “paradisi apocalittici”.

Essi, alterati dall’intervento digitale, forniscono allo spettatore differenti prospettive future, che affascinano ma al contempo turbano. Quelle che Barbara ci propone sono le alternative di un futuro meno prevedibile. Case sull’albero in cemento armato, fili elettrici, segnaletica stradale e asfalto in mezzo alla natura diventano così il simbolo dell’intervento umano, della sua attività distruttiva e il conseguente stravolgimento dell’ambiente. Raramente in queste opere figura l’uomo, ma di esso si percepisce il passaggio e la sua traccia distruttiva. Eppure, nonostante la tangibile minaccia, la natura non si arrende, prova costantemente a fornirci un nuovo equilibrio e a rigenerarsi per guarire dalle ferite inferte dall’uomo.

Ciao Barbara, ti va di iniziare raccontandomi la tua formazione e come nasce la tua passione per la fotografia?

In realtà sarei bugiarda se dichiarassi di avere una passione. Per me l’immagine fotografica è un espediente, lo strumento che al momento mi consente di fabbricare le mie visioni.

Il mio percorso è iniziato con la doppia esposizione della reflex analogica, ma quando la fotografia si è rivelata insufficiente per delineare l’atmosfera che cercavo, sono passata alla pittura a olio, per poi virare su una composizione digitale più complessa e multiforme, che per molte analogie conserva un intento pittorico. Nella realizzazione dei miei collage cerco di ispirarmi sia alla pittura che alla fotografia, cercando quelle suggestioni che mi fanno vibrare l’anima.

Mi sembra di aver capito che hai vissuto in Inghilterra, per quanto tempo e come ha influito questo sulla tua produzione artistica?

Si, ho vissuto otto anni in Gran Bretagna, prima a Londra e poi in Hertfordshire, nell’Inghilterra più autentica. Dal punto di vista professionale mi sono interfacciata con una realtà in cui l’arte può essere vissuta come una professione dignitosa, senza che la società ti emargini o ti consideri un balordo o, uno che non ha voglia di lavorare (ma la pigrizia no, quella non la rinnego!). Il risvolto della medaglia è che il settore dell’arte è un circuito piuttosto chiuso, in cui il talento passa in secondo piano rispetto alla formalità del percorso di studi. Un artista che non abbia frequentato una delle 4 o 5 scuole d’arte prestigiose di Londra, seppur apprezzato da pubblico e critica, sarà sempre un outsider.

Barbara Nati, “Inverted Kingdoms”.

Hai definito i tuoi lavori “collage digitali”, in cosa consiste questa tecnica?

Ogni mia immagine è costituita da un numero di livelli di Photoshop – leggasi porzione di immagine – che arriva e in alcuni casi supera i 300. Lavoro con una vastissima libreria di immagini divise in categorie e argomenti, da cui estraggo piccole sezioni che vanno a comporre l’immagine finale.

Qual è l’origine delle immagini di cui fai uso? Sono immagini prodotte da te?

Non tutte. E non mi vergogno a dire che il mio lavoro è la quintessenza del periodo che stiamo vivendo, di intensa cultura dell’immagine e condivisione senza scrupoli. Non procedo in questo modo solo per una questione di convenienza, benché io non voglia limitare la mia produzione ai dettagli che fisicamente ho la possibilità di fotografare. In realtà l’essenza connaturata in questa prassi di lavoro rende accessibili luoghi, ricordi ed esperienze di altre vite, che si legano successivamente, nel passaggio creativo, ad una nuova configurazione.

Ad esempio durante la lavorazione di “La casa di questa mia sera” mi sono avvalsa di varie immagini di disastri naturali, di uragani e terremoti, dettagli che non avrei mai avuto la sfrontatezza di catturare di persona, ma a cui in qualche modo ritengo di aver restituito speranza.

Barbara Nati, “Inverted Kingdoms”.

Quella che ci mostri appare come la visione del mondo, quella più drammatica, dove l’uomo ha perso il controllo e si è autodistrutto – se non altro non sempre è presente nelle tue opere, ma è visibile la sua traccia distruttiva. È possibile?

A ben vedere sembra proprio che non mi sia inventata nulla. Purtroppo abbiamo imparato poco dai recenti sviluppi. Lo dimostrano le mascherine e i guanti buttati nell’ambiente. Lo sfruttamento umano delle risorse naturali si sta spingendo verso limiti pericolosi, impossibili da prevedere.

La figura umana raramente si palesa nel mio lavoro, ma la presenza dell’uomo è nettamente percepibile nel ruolo centrale che gli spetta quale unico animale terrestre, che continua a sfruttare ciò che non possiede, sottraendolo alle generazioni future.

La fotografia tradizionale prevede di dare una certa importanza allo “scatto”. Nelle tue opere più che di “scatto perfetto”, mi verrebbe di parlare di “incastro perfetto”, simile a un puzzle (a doppia soluzione) che riesci a ricostruire con grande destrezza e il cui risultato non può che spiazzare lo spettatore, perché ciò che finiamo per vedere è un’altra faccia della realtà. È possibile che sia così?

È vero, non c’è scatto perfetto perché lo scatto in sé non è imprescindibile nella mia produzione, come non lo è la raccolta di immagini. L’equilibrio che tiene unite le nuove forme è la vera sostanza. L’altra faccia della realtà non è altro che una verità che non diamo per scontata. Ma per coglierla bisogna fare un passo fuori dal conformismo. Il mio compito è offrire un’alternativa meno prevedibile. La vertigine nello spettatore che ne deriva mi persuade di una sensibilità che abita i più ma che resta inespressa finché non vedono il proprio mondo riflesso e da oggetto della visione si fanno soggetto.

Barbara Nati, The House Of This Evening, “Umpredictable Trees”, 2013, 75×125.

Come nasce la serie delle architetture sugli alberi (Umpredictable Trees)? Osservando queste opere ho come la sensazione di trovarmi in un primo momento all’interno di una favola (come la storia de “Il fagiolo magico” o “Alice nel paese delle meraviglie”). Poi però, appena aguzzo meglio la vista, mi accorgo che non è una fiaba ma l’apocalisse e ad esser sull’albero non è una bella casa di legno, ma una rovina in cemento.

Eppure esistono tracce di vita, come confermano le luci accese e i panni stesi. Qui vorrei riprendere la tua domanda precedente in cui accennavi a un puzzle a doppia soluzione.

Tutte le serie a cui ho lavorato hanno due chiavi di lettura più o meno manifeste, di cui una avversa e una propizia. Talvolta una eclissa l’altra, talvolta la consapevolezza raggiunge l’osservatore in momenti diversi, come è capitato a te. In questo progetto un cataclisma ha raggiunto questi fabbricati che, vessati dalle calamità ed erosi dalle intemperie, hanno assunto la forma di arbusti. Le macerie però non sono visibili, e la vita in qualche modo continua a persistere, come se gli edifici e chi li abita fossero riusciti a ritrovare un nuovo equilibrio con l’ambiente che li circonda. L’incertezza sullo stato delle case ricalca gli ultimi versi de La Casa dei Doganieri di Eugenio Montale dai quali la serie prende il nome “Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta”.

Barbara Nati, “Cages of tranquillity”.

Un’altra serie che mi ha colpita molto è No farewell only endless goodbye (Nessun addio solo eterni arrivederci), dove si inserisce anche il tema del viaggio. Ti va di parlarne?

Anche sul tema di quest’ultima ho meditato molto ultimamente, durante il periodo di inerzia obbligata. Adesso più che mai, ci si rende conto dei ritmi insostenibili che l’Occidente negli ultimi decenni ha promosso e favorito. Nell’epoca del viaggio low-cost e del trasporto aereo di massa, la gabbia di meridiani e paralleli è ormai saltata, accorciando distanze e tempi di percorrenza. I progressi nella comunicazione hanno contratto i planisferi. Se il viaggio rappresenta un’esperienza di accrescimento personale, in un mondo ridotto dalla velocità degli spostamenti e dal turismo frettoloso, tutto è fin troppo a portata di mano, standardizzato. Le funzioni dello spazio sono liquefatte in un immenso villaggio globale svuotato di senso.

Barbara Nati, “No Farewell only endless goodbye”.

Le tue opere sembrano calate nel silenzio, come al termine di una tempesta, o alla fine di un terremoto, quando il mare si calma e la terra smette di tremare: ciò che rimane è il silenzio, la distruzione. C’è una denuncia nelle tue opere? Sono emblema della fine, della rassegnazione?

Il silenzio è d’oro. Ma non sempre il suo valore è apprezzato. Invece a me ha impressionato positivamente il recente crollo del rumore antropico causato dalla riduzione dei movimenti delle persone, rilevato anche dai sismologi. Le mie opere non sono emblema della fine, ma sono un ammonimento, una visione di un futuro eventuale che sonda i limiti del progresso. Nonostante la tangibile minaccia, gli scenari che propongo, tuttavia, hanno un aspetto riconciliante che si fonda sulla rigenerazione continua dell’elemento naturale in grado di sanare le ferite inferte dall’umanità.

Barbara Nati, “Inverted Kingdoms”

Hai in cantiere qualche progetto per il futuro?

Sto lavorando con la stampante 3d. Il progetto è ancora in uno stadio piuttosto embrionale che non mi consente di stabilire se a questo ne seguiranno altri. Certamente non smetterò di cercare il giusto apporto della terza dimensione nella mia ricerca, un aspetto che mi sta molto a cuore.

In copertina: Barbara Nati, tre opere tratte della serie “Umpredictable Trees”.

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