Di Laura Marasà
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La prima volta che ho visto le opere di Giovanni Federico era il 2007, a Palermo. Il suo lavoro rimase impresso nella mia memoria. Mi tornavano alla mente figure umane filiformi che emergevano da affascinanti e sempre nuove scenografie.
Giovanni nasce e vive a Petralia Sottana, un paesino nella provincia di Palermo, dopo aver trascorso diversi anni a Cuba. Le sue opere hanno un’aura misteriosa, sono lavori al limite della tridimensionalità: tra la pittura e la scultura.
Raccontaci qualcosa di te: quando hai iniziato ad appassionarti al mondo dell’arte? Quali studi hai fatto?
Ho iniziato ad avvicinarmi all’arte dopo aver visto delle collettive di pittura a Palermo. Avrò avuto circa 17 anni. Non ricordo se mi piacquero tanto o poco le cose che vidi, ma una cosa mi sorprese profondamente: la possibilità di creare qualcosa dal “nulla” . Procurato l’occorrente, mi misi subito al lavoro. Non sapevo nemmeno da dove iniziare, anche perché c’era una discrepanza tra quello che avevo in mente e la possibilità tecnica di realizzarlo. La cosa certa è che ogni volta che fronteggiavo la “tela bianca“, sentivo delle potenti vibrazioni.
Mi definisco e sono, quasi in tutto, un autodidatta. Dopo il diploma mi iscrissi alla facoltà di lettere e filosofia, ma dopo alcuni esami la abbandonai per dedicarmi all’audiovisivo. Un paio d’anni più tardi mi ritrovai a seguire i corsi di regia e direzione scenica alla EICTV (Escuela internacional de Cine y televisión) a Cuba.

Ricordi la tua prima opera firmata “Giovanni Federico”, quella in cui per la prima volta è venuto fuori il tuo stile?
Non ricordo di certo il primissimo dipinto, ma di sicuro ricordo la prima volta che misi assieme le figure tridimensionali (raffigurazione dell’umano) e la pittura. In quel periodo, credo anno 2001, vivevo a Madrid e dipingevo nella piccolissima stanza da letto, alcova mia e della mia attuale compagna. Realizzai una donna distesa a faccia in giù in spiaggia con una porzione di mare realizzato con le resine (già utilizzate in precedenza). Da quel momento le figure “filiformi” divennero centrali, anche se non in maniera esclusiva.
Come nasce l’idea di mettere insieme pittura e scultura? Quali sono i materiali che usi di più?
Dagli albori, il mio lavoro pittorico è sempre stato molto materico. Nei primissimi dipinti spesso inglobavo alla superficie pittorica oggetti di ogni genere: pezzi di metallo, plastiche, terracotta, olio, fibra di vetro e perfino oggetti biodegradabili.
Ti racconto un aneddoto: un giorno realizzai un quadro di metallo utilizzando delle uova accorpate con della resina poliestere, solo che dimenticai di svuotarle o di cuocerle prima. Dopo qualche settimana, i gusci si decomposero e l’odore nauseabondo pervase l’intera casa di un caro amico, dove lavoravo all’epoca.

Chi sono i personaggi che compaiono nei tuoi quadri? Quali sono le ambientazioni e in base a cosa le scegli?
Una volta stavo raccontando ad un amico dei lavori che avrei esposto in una galleria e per descrivere le figure filiformi adoperai il termine “personaggi”. Egli mi fece subito un appunto: era sconveniente quella parola, perché a suo modo di vedere, sminuiva o banalizzava il mio lavoro.
Ci pensai su, e dopo molti mesi arrivai alla conclusione che il termine “personaggi” era il termine giusto e infondo, non era affatto fuorviante. A volte, infatti, ho la sensazione che alcuni miei dipinti assomiglino a delle scenografie teatrali e che le figure siano gli attori protagonisti.

È proprio vero, i tuoi personaggi a rilievo a volte sembrano i protagonisti di un racconto. Si ritrovano in luoghi e ambientazioni sempre differenti, e vivono come attori di una storia in movimento. Pensi che aver studiato cinema e aver realizzato alcuni cortometraggi abbia influenzato in qualche modo la tua arte?
Fin da bambino, mi hanno affascinato quei piccoli “libri” dove le varie figure che lo compongono, se sfogliate velocemente, creano un’azione in movimento. Ma il movimento è solo un‘illusione ottica: sono solo tanti singoli “quadri”.
Le tue figure appaiono fragili, suscitano quasi un senso di vertigine, come quando si sogna di cadere nel vuoto. È come se i personaggi, così esili, galleggiassero sul quadro. Sarà per il tuo modo di giocare sempre con la tridimensionalità?
La precarietà dei corpi, soggetti a continue mutazioni, e la precarietà della stessa esistenza, sono più vicine al concetto di “fragile“, che al suo contrario. Una figura longilinea con scarso ancoraggio amplifica questa sensazione.
Al di là di improbabili significazioni, c’è un’idea del “bello” in questa tipologia di forme che ha attraversato buona parte dell’iconografia occidentale. Mi viene in mente la Vergine dal collo lungo del Parmigianino, le opere di El Greco, una deposizione Van Der Weyden, passando per Giacometti e Modigliani.
Voglio dire che le figure “filiformi” sono sempre esistite. Penso di aver trovato un modo mio di metterle in scena: in esse coesiste l’anelito all’infinito e il peso della gravità.

Pensi che aver vissuto e lavorato a Cuba, abbia influenzato in qualche modo la tua arte?
Dopo aver vissuto quasi vent’anni a Cuba sarebbe stato impensabile che un luogo simile, con un’identità così forte, non avesse influito su di me.
Nei miei lavori c’è sempre stata molta ironia, ma anche un certo “sentire” tragico.
Forse il mio vissuto a Cuba ha donato, in un certo senso, una maggiore “leggerezza” alle mie opere.
Il tuo studio, nonché la tua casa, è situato in un posto isolato dal resto del mondo. Immagino che questo possa aiutarti a concentrarti? Da dove nascono le tue ispirazioni?
Un luogo isolato in alta montagna, racchiude in sé un profondo silenzio, e il silenzio, può essere utile per sentire meglio alcune cose.
A volte sono attratto da qualcosa, che però non si manifesta esplicitamente, un’idea obnubilata che a poco a poco si fa più nitida. I lavori che sto realizzando adesso sono stati “concepiti” mesi addietro. E mentre li realizzo altre cose cominciano a bollire in pentola e così via. Anche se non sempre funziona così. Alcune volte un’immagine precisa mi arriva come un forte abbraccio o un pugno allo stomaco.

Quali sono i temi che ami affrontare di più? Ho notato la costante del tema del viaggio, del percorso, di un viaggio inteso anche come trasporto di vite: condivisione.
Il viaggio è un tema a dir poco ricorrente. Parlo del viaggio in senso fisico, ma anche mentale, spirituale.
Se dovessi descrivere con un’immagine il viaggio dell’esistenza umana, accosterei una culla ad una bara, separati da un arcobaleno (un ponte).

Molto spesso è presente l’elemento dell’acqua nei tuoi quadri. Il mare, le barche o addirittura rubinetti incollati alle tele. Da dove arriva quest’acqua? Cosa vuole comunicarci?
L’acqua è l’elemento vitale per eccellenza. Non è un caso che Talete di Mileto la erigesse a origine dell’universo. Senza acqua non c’è vita.
Al contempo l’acqua è un ambiente in cui non siamo del tutto a nostro agio: entro l’acqua non resistiamo che per pochi minuti (si pensi alla paura di morire annegati).
Conosciamo ancora relativamente poco degli abissi: quindi essa rappresenta anche l’insondabile.
Senza voler psicoanalizzare ad oltranza, questo elemento potrebbe rappresentare l’evento traumatico del parto. Non a caso si parla di rottura delle acque…per non parlare di quanto costano gli idraulici!

Stai lavorando a qualche progetto in questo momento?
Una serie di circa trenta opere, tra dipinti e sculture, che sarà collocata all’interno di uno spazio espositivo.
L’idea che sta alla base del progetto abbraccia diversi temi, in qualche maniera interconnessi tra loro e concernenti l’uomo contemporaneo e l’ambiente che lo circonda: popoli migranti, riscaldamento globale, una sempre più generalizzata carenza d’empatia, la scarsa propensione all’ascolto, le paure “indotte” e le istanze di una comunità sempre più globalizzata che “naviga” verso destinazioni incerte e forse poco rassicuranti.
Una finestra sul contemporaneo che prova a gettar luce sullo stato di salute del mondo che viviamo.
In copertina: Giovanni Federico, Senza titolo, tecnica mista, 2001.