Di Chiara Sandonato
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All’improvviso, mentre una pandemia causa il lockdown globale e ci costringe a casa con i nostri dispositivi digitali – unica finestra aperta sul mondo – una catena di ferro si avviluppa attorno a scuole, fabbriche, negozi, aziende e… musei. Proprio loro, i luoghi della cultura.
Tuttavia, c’è chi sta cercando di sfruttare la situazione per volgerla per quanto possibile al meglio, ovvero concentrandosi sull’implementazione di strumenti digitali e su nuove forme di comunicazione che possano mantenere viva l’attività culturale senza rappresentare il minimo rischio per la popolazione. I musei che erano “attrezzati” teoricamente, con convinzione e con risorse adeguate, hanno sentito la necessità di presidiare e tenere acceso il loro discorso con i propri pubblici, via web e sulle piattaforme social.
Vincenza del Marco, docente presso l’Accademia di Belle arti di Brera e la LABA Trentino, oltre che autrice del volume L’immagine in rete. Selfie, social network e motori di ricerca (2018), ci aiuta a capire quali sono le conseguenze di questo drastico cambiamento del nostro ambiente culturale.

Vincenza, cosa significa oggi per noi, reclusi in casa in una quarantena apparentemente senza fine, attivare uno sguardo “attraverso lo schermo” per osservare collezioni d’arte, esposizioni museali, mostre?
Se presi comunque da diversi impegni non riusciamo a sperimentare una dilatazione del tempo, tuttavia ci troviamo senza dubbio costretti nello spazio. Tirati fuori da complesse reti di significazione legate fra l’altro alla dimensione corporea, siamo obbligati a vivere forme semplificate di presenza e interazione. Lo schermo è un incredibile catalizzatore di attenzione e in questo periodo domina sovrano.
Permane e si amplia una grande offerta in rete che si collega anche a una retorica dell’opulenza, portata avanti già da tempo da diversi giganti del digitale. Ci troviamo di fronte a una notevole floridezza delle possibilità di accesso: vengono proposte nuove risorse e altre vengono rese disponibili, in diversi casi gratuitamente; sconfinati archivi, alcuni di estremo pregio e valore diventano consultabili. Insomma l’idea di rimpinzarsi, in un contesto che tende all’asetticità, può essere estremamente allettante. Avere molte possibilità non significa però avere gli strumenti, le risorse e l’interesse per coglierle e finito l’entusiasmo iniziale, magari tradotto in un approccio fondamentalmente ludico, può calare la volontà di compiere percorsi e approfondimenti.
Alcune Istituzioni e soggetti del mondo della cultura in questo periodo stanno mettendo in scena le loro attività, i loro mezzi e le loro potenzialità, anche nello specifico in relazione alla pandemia, e continuano a relazionarsi in modo simulacrale con i fruitori. Varie manifestazioni di operosità, dinamicità e in generale vitalità possono sicuramente fornire occasioni di stimolo, nello specifico nel mondo dell’arte e dei sistemi espositivi ed anche agire nel campo di rapporti comunicativi già più o meno sedimentati e consolidati. Per varie ragioni risulta importante affermare una presenza e definire o perseguire degli obiettivi anche in una situazione di crisi o di stasi, e questo discorso vale tanto più in questo ambito. Ricordiamo che il diritto ad una vita culturale attiva è sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Oltre a mappare l’universo esistente, il web tende a sua volta a configurarsi come un universo parallelo che influisce sulla stessa percezione dello spazio. Cosa succede nell’interazione fra realtà e simulazione, tra off line e on line?
Alcuni processi in questo momento non hanno fatto altro che emergere in modo inequivocabile. La distinzione fra off line e on line è ormai da tempo poco netta, anzi le due dimensioni sono totalmente permeabili. Siamo continuamente sollecitati da notifiche e i dispositivi mobili sono sempre più pervasivi, anche nella fruizione dello spazio. Abbiamo costantemente la sensazione di perdere qualcosa se non siamo collegati alla rete. L’impressione ora, anche in una situazione così vincolata, è di poter totalmente accorciare le distanze e in alcuni casi di poterlo fare virtuosamente, ma attenzione alle illusioni, ci stiamo perdendo molto.
Possiamo essere curiosi, ricercare e scoprire in rete ma se non possiamo farlo immergendoci in differenti semiosfere [In semiotica, la semiosfera – concetto proposto dal semiologo russo Jurij Lotman – denota lo spazio nel quale i diversi sistemi di segni in una cultura possono sussistere e generare nuove informazioni.], attraversandole nella loro complessità, siamo in parte anestetizzati e alienati.
Per quanto possiamo far parte di un piacevole microcosmo, lo spostamento rappresenta apertura, possibilità di scelta e anche di condivisione di dimensioni di significazione.
Alla luce della situazione attuale, esiste secondo lei una reale separazione nella comunicazione di un’istituzione museale con i suoi pubblici tra on line e fisico?
La comunicazione in praesentia ha una portata che differisce da quella on line. Possiamo dire che alcune istituzioni museali avevano già cercato competenze e investito seriamente sulla comunicazione sui social network, ad esempio, e su altre forme di comunicazione in rete. Quindi alcuni si sono trovati più preparati di fronte alla situazione di crisi attuale, altri si sono sperimentati, magari in modo originale e innovativo, altri invece hanno fatto fronte all’emergenza con mezzi di fortuna.
Molte forme di comunicazione però sono strettamente legate a costruzioni identitarie che passano attraverso differenti linguaggi e discorsi, quindi la sfida si gioca anche su questo campo ed è trasversale. Sicuramente i pubblici della rete hanno caratteristiche peculiari che vanno individuate, considerate e inscritte, anche rispetto alla dimensione dello spazio. Pensiamo ai flussi turistici globali canalizzati da importanti musei, alla recente apertura del Louvre di Abu Dhabi; forse ritenere superato questo modello basato anche sulle visite e gli spostamenti è prematuro.
L’impatto del COVID-19 ha generato notevoli perdite, legate fra l’altro agli introiti degli ingressi, soprattutto su un certo tipo di economie legate all’arte e ai musei. Si temono ragionevolmente chiusure per alcune realtà e si effettuano licenziamenti in tronco in altri casi. Questo pone in luce quanto la comunicazione si rivolga anche a un pubblico di visitatori o potenziali visitatori; è per me difficile pensare a un radicale cambiamento in tempi brevi.
Tra le varie iniziative pensate dai musei italiani, dalla passeggiata con il direttore proposta sottoforma di video-pillole sui social network da Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, a Voci dal museo, myBrera e Appunti per una resistenza culturale, lanciati dalla Pinacoteca di Brera, esistono degli esempi “virtuosi” di comunicazione digitale ai tempi del Corona virus?
Le Gallerie degli Uffizi, seguitissime su Instagram, proprio in questo periodo, il 10 marzo, sono addirittura approdate su Facebook, con un seguito immediato di interesse e molte iniziative.
Gli esempi virtuosi ci sono senz’altro, anche per quanto riguarda la didattica; alcune attività invece sono piuttosto “improvvisate”.
Come cambia la relazione con le opere d’arte e la loro percezione attraverso la mediazione delle tecnologie e cosa cambia nell’esperienza di visita di uno spazio museale tra fisico e virtuale?
Inevitabile richiamare il saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936) di Walter Benjamin, ancora così attuale. Desacralizzazione, ritualità, estetizzazione sono termini in gioco su cui riflettere. Facendo considerazioni a carattere fenomenologico, le tecnologie mettono in atto comunque diversi rapporti con le opere e i sistemi espositivi, che vale la pena ricordare. Dalla costruzione di archivi digitali che prevedono differenti modalità di reperimento, alle possibilità di visione su dettagli ad altissima definizione, fino alla riproduzione degli spazi espositivi, con possibilità di simulazione di uno spostamento soggettivo. Se volessimo aprire anche un discorso sul rapporto con la fotografia e con la condivisione sui social delle immagini inizieremmo a nuotare in un mare magnum.
Nel 2017 ha curato con I. Pezzini: Nella rete di Google. Il testo contiene due saggi (Corrain e Macauda; Polacci) attorno alla nascita di Google Art Project, il progetto lanciato a febbraio 2011 in collaborazione con 17 musei e considerato il primo grande intervento legato alla digitalizzazione artistica. Perché questo progetto ha segnato un passo decisivo nel campo della digitalizzazione culturale?
Intanto ricordiamo che è un soggetto privato con enormi capitali a farsi promotore di questa iniziativa, stabilendo partnership con varie istituzioni. Ricordiamo, inoltre, che il progetto inizialmente si lega alla modalità di rappresentazione Street View, che varca sempre nuove frontiere, fra cui quella dell’esposizione museale. Ciò vuol dire che si va ad agire sulla dimensione della rappresentazione dello spazio, ad altezza persona e non solo su quella della costruzione di archivi digitali variamente strutturati e consultabili. A questo si affianca la microscope view, che gioca sull’altissima definizione, ma delle due dinamiche personalmente ritengo che la prima abbia prodotto una novità e un impulso maggiori.
Dal suo punto di vista, che passi sono stati fatti in questa direzione, dalla nascita di Google Art Project a oggi, in termini di alfabetizzazione tecnologica nella percezione e nella fruizione dell’universo culturale da parte del pubblico? Siamo pronti ad accontentarci di osservare Van Gogh – seppur con la possibilità di cogliere tutto lo spessore della sua pennellata – dalla nostra camera da letto, sullo schermo del nostro telefono, rinunciando all’esperienza “fisica”?
In una sola battuta: di osservarlo on line non ci accontentiamo, forse di fotografarlo e condividerlo sì.
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