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Stefano Lo Voi è un eccellente e versatile illustratore palermitano che riesce a personalizzare fortemente i suoi lavori grazie al rapporto tra tema raffigurato e forma di rappresentazione scelta.
La sua esperienza va da personali percorsi rappresentativi alla elaborazione di immagini di supporto per libri e pubblicazioni. Stefano si è da poco cimentato come autore, dando vita ad una brillante Graphic Novel dal titolo The Box, di cui, nel corso dell’intervista, ci parlerà lui stesso.
Stefano, sei molto giovane. Tuttavia, nel corso della tua produzione hai sviluppato temi impegnativi, facendo sentire la tua voce, e palesando la tua posizione attraverso le tue immagini. Parliamo dei tuoi magnifici “alberi” e del significato attribuito ad essi?
Se dovessi ripensare al mio primo ricordo da ripescare dal passato, vedo me chinato sul foglio di carta con in mano una bic. Se mi avvicino ancora di più, vedo la penna tracciare delle linee marcate e decise che costruiscono la figura di un albero. Ho sempre disegnato alberi nella mia vita, ancora oggi continuo questa produzione. Naturalmente mi sono interrogato sul motivo per cui io sia stato e sono legato a questa immagine, così feci delle ricerche.
La psicologia, indagando sulla psiche del paziente “ammalato”, si è servita della figura dell’albero per comprendere e tracciare a grandi linee la personalità dell’individuo a cui si chiedeva di disegnare, appunto, un albero. Mi riferisco al test dell’albero di Karl Koch. Lo stesso spiega tutti gli aspetti da tenere in considerazione affinché il test sia attendibile. Si fa riferimento alla collocazione dell’albero nello spazio del foglio, alla sua dimensione, ai rami, alle radici e così via; ogni caratteristica ha un significato ben preciso.
Se poi ripercorriamo la storia dell’uomo possiamo riscontrare l’importanza della figura dell’albero in ogni campo del sapere, dalla scienza, alla psicologia, all’arte e alla religione.
Raccolte le informazioni necessarie, mi sono posto l’obiettivo di comprendere meglio il mio lavoro, i miei alberi e, di conseguenza, me stesso. Ho condotto questo studio metodicamente nella mia tesi di laurea triennale conseguita presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, a fianco del professore Davide La Cagnina. Considero queste illustrazioni come pagine di un diario, dove, attraverso il segno grafico, scrivo di me, delle emozioni che vivo, del tempo che scorre nel mio spirito.
È un tipo di scrittura che non si palesa esplicitamente nel suo messaggio, non sono parole comprensibili da tutti, ma soltanto da coloro che leggono con il cuore e la mente. Mi identifico nella figura dell’albero, che cresce, produce frutti e talvolta perisce nel rigido inverno, una stagione apparentemente improduttiva ma ricca di riflessioni in attesa che ritorni la primavera, e con essa le nuove foglie. Seguo il ciclo dell’esistenza dell’uomo che ruota attorno ad un cerchio; la circonferenza può variare in relazione alla consapevolezza che possediamo di noi stessi e degli altri. Credo che disegnerò alberi fino a quando non si esaurirà in me la necessità di raccontarmi.


Dalla “vita”, concetto richiamato dalla figura dell’albero, che esprime l’idea della vitalità, dell’attività e della crescita, passiamo all’affascinante tema della morte, a te altrettanto caro. Il modo in cui lo affronti è a dir poco originale: ci vuoi raccontare?
Il tema legato alla morte lo riconduco anch’esso alla mia infanzia. Ricordo che capitava di vedere per strada uomini ben vestiti che con rispetto caricavano in un lunga auto, una cassa di legno ben lucidata. Attorno ad essa gravitava un corteo di persone, con il viso afflitto, talvolta rigato dal pianto. Il corteo seguiva l’auto e si perdeva oltre la mia vista.
Non ho mai chiesto a nessuno cosa accadesse in quello strano rito, non mi ero mai informato su cosa contenesse la cassa, mi limitavo ad osservare, quando ricapitava, la medesima scena. Un giorno ricevemmo la notizia della morte di una mia zia. “Morta”, pensavo, cosa vorrà dire? I miei genitori dissero che dovevamo farle visita un’ultima volta. A casa sua vidi una cassa di legno poggiata su dei sostegni, questa volta non era chiusa e allungando lo sguardo vidi cosa conteneva.
Capii tutto. Nella quotidianità c’erano scatole che contenevano scarpe, altre della frutta, un’altra utensili da lavoro, quella invece un essere umano.
Compresi presto che prima o poi nella mia vita qualcuno mi avrebbe ficcato in quella “scatola”. Da quel giorno nacque la mia ossessione per la morte, e confesso che cominciai a fare delle passeggiate al cimitero; ancora oggi lo faccio. Ogni volta che compio un viaggio, che visito una città, ho il desiderio di visitare il cimitero del luogo.
Per sdrammatizzare, per non appesantire lo spirito con l’idea della morte, ho tentato, nella mia ricerca pittorica, di spostare l’attenzione del significato attribuito alla bara verso qualcos’altro di assolutamente distante da esso. La bara quindi diventa una barca sul lago; si trasforma in una piantana per illuminare l’ambiente domestico; si fa un bagno per la propria igiene personale; caricata in auto è pronta a farsi un giro; poggiata su una tovaglia da pic-nic funge da tavolino, e così via.
L’atteggiamento da me adottato ricorda l’idea di arte che ebbe Duchamp entro la cornice del dadaismo. Basti ricordare la ruota di bicicletta montata su uno sgabello rendendolo inutilizzabile, oppure l’orinatoio che diventa una fontana, ci riferiamo al ready made. Seguendo la sua poetica io tento di fare qualcosa di simile con l’elemento della bara, solo che nel mio caso non si tratta di ready made, ovvero oggetti già pronti, io costruisco l’immagine attraverso la tradizione pittorica insaporita di un gusto dadaista e surrelista.


A parte la tua interessante e densa produzione personale, in qualità di illustratore hai spesso rappresentato storie scritte da altri. È ad esempio il caso della saga fantasy del mago Dave Street, ideato dal talentuoso Davide Seidita. Le tue immagini sono ricche di dettagli, pare che linee marcate abbiano un ruolo di spicco rispetto ai colori accesi. Queste illustrazioni sembrano delle stampe, invece le hai realizzate a mano libera. Che tecnica hai utilizzato e su quali criteri si è basata la tua scelta?
Sono sempre stato attratto più dal segno grafico che dal colore. Sto riscoprendo quest’ultimo solo negli ultimi anni della mia produzione artistica. Il colore possiede una forza di espressione incredibile, su questo non c’è dubbio, ed in ogni opera, o quasi, il disegno, che spesso viene tracciato come linea guida del processo pittorico, passa in secondo piano poiché verrà coperto. Naturalmente la storia dell’arte ci insegna che esiste anche una pittura priva di disegno come nel caso di Pollock. A parer mio anche in questa forma di pittura esiste sempre un disegno, si trova nella mente dell’artista, è un disegno mentale che si proietta sulla tela attraverso il gesto dell’artista dell’action painting.
Nel mio lavoro spesso prediligo il disegno e quando compare il colore, è quest’ultimo ad essere inglobato dal segno grafico.
Infatti prima stendo il colore e poi disegno sopra. La tecnica che prediligo è china su carta. Davide Seidita ha conosciuto i miei lavori grafici e mi ha parlato del suo romanzo. Abbiamo parlato a lungo e abbiamo trovato un ponte che ci ha unito in una collaborazione. Ricordo che mi inviò il primo capitolo del suo romanzo ed io illustrai i tratti salienti delle vicende narrate nelle sue pagine. Le mostrai a Davide e mi telefonò immediatamente. Mi disse: «Come fai a conoscere così bene i miei personaggi e il mondo che ho creato?». Io risposi che non lo sapevo, che probabilmente mi ero addentrato nella sua scrittura liberando da essa le immagine trattenute in ostaggio.
Fu così che consolidammo questo rapporto di lavoro che ogni tanto ci ha visto in disaccordo, e questo ha permesso di ragionare meglio su ciò che desiderava per il suo romanzo. Il mio obiettivo, quando realizzo delle illustrazioni per uno scrittore è quello di soddisfare a pieno le sue esigenze, ambisco a realizzare delle immagini che si sposino perfettamente con le prospettive dell’autore. Una sorta di visione condivisa che compenetra nelle pagine del libro.

Concentriamoci infine sull’opera su cui stai lavorando e che ti vede al contempo autore e illustratore. Ti va di anticipare qualcosa su The Box, prossima alla pubblicazione (SpazioCulturaEdizioni)? Come si sposano, in questo caso, testo e immagini?
Di solito si scrive una storia e poi, se si ha la necessità, si illustra. Io ho fatto l’esatto contrario. Ho realizzato delle illustrazioni, durante il processo creativo l’una si legava all’altra proprio come accade con le parole nella scrittura. Ho scritto una storia senza sapere di scriverla. Un giorno ho preso in mano queste immagini e le ho guardate attentamente. Le ho viste animarsi, mettersi in moto l’una con l’altra come ingranaggi. Mi trovavo chino sul pavimento piastrellato dalle circa ottanta illustrazioni. In sottofondo il componimento musicale del pianista Brian Crain, Ice, che divenne infine la colonna sonora del mio libro. Presi un taccuino e con la penna cominciai a scrivere la storia che le immagini cantavano. Presto tutto trovò la sua forma finale.
Nacque THE BOX. Immagini e testo sono essenziali, ridotti alla loro essenza.
Tra loro non vi è alcun disaccordo, sono alleate, si sostengono fino alla fine. La descrizione di entrambe è veloce e breve, assecondano il tempo interiore descritto dal racconto, in cui abita un mondo poco descrittivo, fatto di attimi, di suggestioni. La storia tratta argomenti quali l’amore, la memoria e l’Alzeheimer. Tutto ha inizio con l’inquietudine di Alesa, un ragazzo privato del suo cuore, al suo posto una voragine nel petto. Non sente più le emozioni, è vuoto come una box. Un giorno una giovane fanciulla gli farà dono di un cuore di metallo capace di captare le emozioni, gli consegnerà una lettera da recapitare al ragazzo della pioggia. Il viaggio ha così inizio, il cuore è vergine, la memoria svuotata, il cammino lungo e colmo di sorprese.
Possiamo concludere dicendo che le illustrazioni sono come un “abito” appositamente cucite sul testo?
Esattamente! Poco fa parlavo del rapporto tra disegno e pittura e della loro interconnessione. La scrittura in questo caso è il corpo che custodisce l’anima, un essere capace di fare emozionare, che ama svelarsi nel tempo agli occhi del lettore. Le immagini indagano il corpo della scrittura, lo studiano attentamente, ne comprendono le forme nella sua sublime bellezza e lo vestono di un abito per ogni occasione.
Ci sono abiti per occasioni felici, altri abiti per occasioni un po’ più tristi.
Il segno grafico si aggroviglia sul corpo e spesso lo completa. Vorrei concludere dicendo che le immagini non devono mai essere perfettamente descrittive rispetto alla scrittura, sono abito con lo strascico, ovvero devono completarla con ulteriori elementi: il segno grafico insomma deve essere una estensione della scrittura, non una copia visiva.
Grazie Stefano, buon lavoro!


In copertina: Stefano Lo Voi, Albero rosso. Su gentile concessione di Stefano Lo Voi.